“Il premier ha violato la promessa di non toccare i contratti in vigore”

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ROMA – Il testo sul lavoro è chiuso. Ha detto Monti: “Su questo non si tratta”. Non crede che il Pd si illuda di poter cambiare l’articolo 18, onorevole Franceschini?
«Monti ha detto di riferirsi al fatto che il governo non intende riaprire la trattativa con le parti sociali. Assicura però, e non poteva essere diversamente, che sarà  il Parlamento a decidere se approvare la riforma del lavoro in blocco, respingerla o correggerla. Il Pd è impegnato a correggerla. Quella norma così com’è non passerà . Abbiamo sostenuto subito che ci doveva essere un disegno di legge, e non un decreto legge. Non per prendere tempo – perché anche un ddl si può approvare in fretta, con una corsia preferenziale – ma perché con un decreto le norme sarebbero entrate in vigore immediatamente, compresa quella sbagliata sull’articolo 18. Invece siamo convinti che il Parlamento la modificherà . Siamo del resto in un sistema parlamentare, in cui è il governo a rispondere al Parlamento e non viceversa».
Però riformare il mercato del lavoro era la mission del governo Monti?
«Noi sosteniamo le cose che stanno nel patto costituente di questo governo. Monti sa che le parole pronunciate in Parlamento sono sempre come pietre. Ma se sono le parole del discorso di insediamento – su cui il governo ha ottenuto la prima fiducia costitutiva – sono ancora più pesanti. Il 17 novembre del 2011 in Senato, Monti disse a proposito di mercato del lavoro: “In ogni caso, il nuovo ordinamento che andrà  disegnato verrà  applicato ai nuovi rapporti di lavoro per offrire loro una disciplina veramente universale, mentre non verranno modificati i rapporti di lavori regolari e stabili in essere”. Lo stenografico dopo questa frase riporta: “Applausi dei deputati del Pd e del Pdl”. È la nuova norma sull’articolo 18 ora a differenziarsi da quella linea, non noi. Non è vietato discostarsi, ma solo con l’accordo delle forze politiche che hanno fatto nascere il governo».
Quindi, qual è il punto di mediazione sull’articolo 18?
«Si può lavorare proprio su quella traccia, differenziando le regole per i nuovi assunti da quelle per i contratti già  in essere. Per questi si può arrivare al massimo al modello tedesco che prevede di fronte al licenziamento per ragioni economiche il ricorso al giudice, il quale può decidere tra indennizzo o reintegro».
Lo scontro in atto – con lo sciopero annunciato dalla Cgil, il pressing del Pd – indeboliscono il governo, come sostiene Alfano?
«Nessuno mette in discussione il sostegno al governo. Una democrazia parlamentare si basa sul rapporto tra l’esecutivo e la maggioranza che lo sostiene. E penso che il cambiamento di quella norma sui licenziamenti per motivi economici non possa avvenire con maggioranze occasionali: né riproponendo la vecchia opposizione più la Lega, né con un arco di forze contro il Pd».
Il Pdl invita a un impegno per chiudere entro l’estate. I Democratici se la sentono di prenderlo?
«Assolutamente sì. Il testo modificato potrebbe essere approvato entro gli stessi termini di un decreto legge».
Realisticamente, quali margini ci sono per cambiare il provvedimento?
«Tutti i precedenti decreti del governo, dal “Salva Italia” alle liberalizzazioni, sono stati modificati e migliorati dal Parlamento. Sarà  così anche questa volta. Non è una minaccia, è il rispetto delle regole costituzionali. Sono convinto che più passa il tempo e più si esce dalla lettura in base alle diverse posizioni dei partiti e dei sindacati, e si passa al merito di cosa produce questa norma. Sarà  il semplice buonsenso a far capire che è sbagliata. Non a caso anche la Cisl, poi la Uil, l’Ugl, e la Cei via via hanno sostenuto che serve il reintegro».
In cosa la norma è sbagliata, secondo lei?
«La norma è sbagliata sia per gli effetti individuali che produce sia per l’impatto psicologico in un paese già  impaurito. Crea una situazione in cui la più forte della due parti, il datore di lavoro, stabilisce unilateralmente la propria situazione di difficoltà  economica che gli consente di licenziare. Al lavoratore, resta la possibilità  di ricorrere al giudice al massimo per ottenere un indennizzo. È evidente che potranno esserci pretestuose dichiarazioni di crisi per poter licenziare. Siamo un paese in piena crisi. Il problema italiano è stabilizzare i precari, non precarizzare gli stabili».


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