Quei «figli di papà » cinesi con il vizio di sfasciare Ferrari

by Editore | 20 Marzo 2012 7:56

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PECHINO — Quando domenica la notizia ha cominciato a diffondersi, con macabro cinismo qualcuno si è affrettato a notare sul web che la Ferrari schiantatasi alle 4 del mattino lungo una delle circonvallazioni di Pechino era nera, non rossa. Non si trattava, cioè, dell’auto per la quale è famoso Bo Guagua, figlio dell’ex segretario del Partito a Chongqing, Bo Xilai. Ma le implicazioni di una Ferrari distrutta, con il giovane al volante morto e due ragazze a bordo ferite gravi, hanno cominciato a farsi più problematiche di ora in ora. E la storia nel giro di una giornata era praticamente scomparsa da portali e siti cinesi.
Le corse notturne dei bolidi della gioventù dorata di Pechino non sono una novità , ma questa conclusa contro un guardrail del quarto «anello» è un caso. Qualche dettaglio è rimasto in circolo. L’incidente è avvenuto nella zona di Haidian, a nordovest della capitale, area di università  e hi-tech, e i corpi sarebbero stati sbalzati a una certa distanza dalla carcassa. Quando sul web i commenti hanno cominciato a diradarsi e le ricerche dell’argomento «Ferrari a Pechino» a non dare risultati, si è imposta l’ipotesi inverificabile che la vittima fosse il figlio di un alto dirigente, addirittura di un leader. Nessuna conferma.
Che la vittima sia o no l’erede di un esponente di punta del Partito conta relativamente. La vicenda raccoglie in sé diversi spunti che la propaganda cinese maneggia con grande cautela, specie nell’anno del congresso che rinnoverà  i vertici comunisti. Un giovane in Ferrari è l’archetipo del figlio del potente, imbozzolato nel privilegio, lontano dall’affannato benessere delle classi medie urbane (per non dire delle campagne…). Inoltre, la disparità  di reddito, il gap ricchi-poveri è il cavallo di battaglia della sinistra (approssimativamente definita «neo maoista») interna al Partito, adesso in difficoltà  dopo gli attacchi pro-riforme sferrati dal premier Wen Jiabao e dopo la rimozione di Bo Xilai, il suo campione.
Bo, figlio di un eroe rivoluzionario, aveva fatto della municipalità  di Chongqing un feudo rosso, all’insegna di un populismo nostalgico e di politiche sociali indirizzate alle classi meno abbienti. Ora è bruciato.
I figli dei potenti sono a loro volta spesso figli di leader dell’era di Mao, i «principini». Allevati in scuole d’élite, educati all’estero, beneficiari di investimenti familiari cospicui ma anche destinati a perpetuare le glorie del clan, non piacciono all’opinione pubblica. Lo scorso settembre un famoso tenore dell’esercito, Li Shuangjiang, aveva dovuto chiedere perdono dopo che il figlio quindicenne (e dunque senza patente) al volante di una Bmw senza targa aveva centrato un’auto ferendo la coppia a bordo. Visitando i malcapitati in ospedale, Li aveva ammesso di non essere stato capace di educare il ragazzo. Nell’autunno 2010 era invece diventata un tormentone nazionale la frase «Mio padre è Li Gang», pronunciata dal figlio di un vicecapo della polizia di Baoding in Hebei, che aveva investito a morte una studentessa in un campus universitario. Le parole con cui aveva tentato di ottenere un’istantanea impunità  lo avevano reso famoso.
La propaganda si ingegna perché i leader non appaiano lontani dal popolo, con una progenie viziata e arrogante. E invece i figli sono spesso oggetto di quelle voci online che sono tra i nemici prioritari del sistema informativo del governo. Eppure, qualche pezzo di verità  anche i pettegolezzi rosa dei super rampolli lo raccontano. Pochi giorni prima che scoppiasse lo scandalo fatale a Bo Xilai, si disse che la promessa sposa del figlio, Chen Xiaodan (guarda caso nipotina di uno degli «otto immortali del Partito», Chen Yun), avesse rotto il fidanzamento con Bo Guagua. Gran preveggenza. La Ferrari di Bo Guagua, però, dovrebbe essere intatta, se non altro.

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