Sequestrato in Italia il tesoro di Gheddafi Azioni, un bosco, 2 moto

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ROMA — Per dare la notizia si è attesa la chiusura della Borsa. Perché tra i beni di Gheddafi bloccati dalle Fiamme Gialle ci sono i pacchetti azionari suo tempo acquistati in società  quotate. Il valore del sequestro è di un miliardo e mezzo, l’intero patrimonio detenuto dai fondi sovrani della Jamahiriya in Italia. Mobili, immobili, investimenti e contanti che serviranno a risarcire le vittime del regime.
Il leader libico aveva accumulato soprattutto partecipazioni azionarie. Erano intestati al Libyan Investment Authority (Lia) e al Libyan Arab Foreign Investment Company (Lafico) l’1,25 per cento di Unicredit (oltre 611 milioni), lo 0,58 per cento di Eni (quasi 406 milioni), il 2 per cento di Finmeccanica (più di 41 milioni), lo 0,33 per cento di Fiat (una ventina di milioni), lo 0,33 per cento di Fiat Industrial (34 milioni) e l’1,5 per cento della Juventus (poco meno di 16 milioni). 
Il blitz è scattato a Roma, Torino, Milano, Modena, Brescia, Perugia e in provincia di Trapani e ha condotto la Guardia di Finanza anche in quattro banche: Ubi, Ubae, Bper e Abc International, dove sono stati bloccati 255 mila euro e 132 mila dollari in contanti, oltre a 650 mila euro in titoli. E tra le proprietà  del leader libico (e famiglia) c’erano pure un bosco di 150 ettari a Pantelleria, un appartamento nella Capitale (al civico 29 di via Sardegna, vicino via Veneto) e due moto, fra cui una Harley Davidson intestata a Saadi, uno dei figli di Gheddafi, ex giocatore del Perugia Calcio. 
«L’operazione è consolidata — dice il generale Ignazio Gibilaro, al vertice del Comando provinciale delle Fiamme Gialle —. Invieremo i dati all’autorità  giudiziaria e resteremo in attesa di compiere altri eventuali accertamenti». Il compito di scovare i beni libici in Italia infatti era stato affidato alla Guardia di Finanza, che ha condotto la «caccia» anche acquisendo i dati in possesso dell’Uif di Bankitalia e del Comitato sicurezza finanziaria del ministero dell’Economia. Al termine dell’indagine il giudice della Corte d’appello di Roma Domenico Massimo Miceli ha firmato, giusto una settimana fa, 23 decreti di sequestro preventivo. 
Così l’Italia ha risposto alla rogatoria inoltrata il 26 ottobre 2011 dalla Corte penale internazionale de L’Aja, con cui è giunta nella Capitale la richiesta di «intraprendere tutte le misure necessarie per identificare, rintracciare, congelare o sequestrare qualsiasi proprietà  di appartenenza o posta sotto il controllo diretto o indiretto di Muammar Mohammed Abu Minyr Gaddafi, Saif Al-Islam Gaddafi e Abdullah Al Senussi», l’ex capo dei servizi segreti della Jamahiriya. I tre (anzi, gli ultimi due, visto che il leader libico è morto) sono accusati di crimini contro l’umanità  da quando, il 16 maggio 2011, il capo della procura della Corte penale internazionale, Luis Moreno Ocampo, ne ha chiesto l’incriminazione. L’Aja precisa di richiedere la cooperazione giudiziaria «nel più alto interesse delle vittime, al fine di garantire che, nel caso gli imputati fossero ritenuti colpevoli di uno o più reati citati nei mandati di arresto, le suddette vittime in virtù dell’articolo 75 dello Statuto possano esercitare la facoltà  di ottenere i risarcimenti per i danni subiti». 
All’origine dell’iniziativa della Corte ci sono due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e due regolamenti del Consiglio dell’Ue. Provvedimenti adottati tra febbraio e marzo 2011 in relazione al precipitare della crisi in Libia. Sono state le Nazioni Unite, per prime, a chiedere il congelamento dei beni «posseduti o controllati, direttamente o indirettamente, dalle autorità  libiche». E nelle risoluzioni l’Onu ha anche invitato gli Stati a impedire «ai propri cittadini o ad altri individui o entità  nel proprio territorio di rendere disponibile qualsiasi fondo o attività  finanziaria o risorsa economica a favore o beneficio» del regime. L’Unione Europea si è subito accodata e adesso, dopo più di un anno, il blocco dei beni di Gheddafi è diventato realtà .


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