Si suicidano anche le guardie

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Un cappio legato al collo o un colpo di pistola: di solito le guardie carcerarie decidono di farla finita così. Sì, perchè in Italia di carcere non muoiono solo i detenuti. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria stima, dal 2000 ad oggi, 68 suicidi tra gli agenti carcerari. Solo lo scorso anno ne sono avvenuti otto. Numeri discordanti da quelli censiti dai sindacati autonomi di categoria, che confermano le stime sul 2011, sostenendo però che in totale sono 88 quelli che si sono tolti la vita nell’ultimo decennio. In ogni caso, un bollettino di guerra.

E nei primi due mesi del 2012 al lungo elenco si sono aggiunti altri due ‘baschi azzurri’: entrambi prestavano servizio a Rebibbia, Roma.

Fatti che testimoniano, se ce ne fosse ancora bisogno, il pessimo stato di salute del sistema penitenziario italiano, affetto da mali cronici come sovraffollamento, inadeguatezza strutturale e carenza di personale. L’ultima ‘pianta organica’ della Polizia Penitenziaria risale al maggio 2000 e prevede 45.121 agenti. A quella data il corpo contava 42.800 unità  e la quota fissata era in linea con la capienza delle carceri. Ma nell’ultimo decennio l’organico è calato costantemente, complice il blocco del turnover non sono stati rimpiazzati i 700 agenti che ogni anno vanno in pensione: attualmente gli effettivi in servizio sono circa 38 mila.

Con un sottorganico che sfiora le 7.000 unità , gli agenti sorvegliano 66.632 detenuti, censiti il 29 febbraio dal ministero della Giustizia, ammassati uno sopra l’altro perché la capienza regolamentare dei 206 penitenziari italiani è di 45.742 posti.

Una situazione che genera continue tensioni, come testimoniano le oltre 5.000 giornate di lavoro perse ogni anno in seguito alle aggressioni subite da parte dei detenuti.

Per affrontare la piaga sovraffollamento, a febbraio il Parlamento ha varato il decreto salva carceri approntato dal Governo Monti, che punta a diminuire il numero di accessi negli istituti di pena, ma la cui efficacia è ancora da valutare.

Per l’emergenza suicidi tra le guardie carcerarie le risposte sono state solo parziali. Ad aprile 2008, dopo due casi nell’arco di pochi giorni, l’allora capo del Dap Ettore Ferrara annunciò la creazione di un apposito call center dedicato gli agenti. Ma il servizio non è mai partito. Gli anni passano e i problemi restano gli stessi. A ottobre 2011, dopo l’ennesimo caso, l’ex numero uno del Dap Franco Ionta ha istituito una commissione di studio sul fenomeno.

«Nella lunga serie di suicidi tra la Penitenziaria a volte c’è un mix di fattori personali e cause di servizio che può risultare fatale», spiega Donato Capece, segretario del Sappe. Poi sottolinea: «Spesso gli agenti vivono per lunghi periodi lontano dalle loro famiglie, accumulano turni su turni per riuscire a ottenere un paio di riposi in fila e poter tornare qualche giorno nelle loro città . Una volta a casa si trovano di fronte i problemi di una famiglia da cui sono assenti, e il peso di tutte queste responsabilità  può travolgerli».

Non è raro che in cella gli agenti si trovino faccia a faccia con la morte, in molti casi sono i primi a trovare i corpi dei detenuti che si tolgono la vita.

Nei casi in cui dopo il decesso di un detenuto viene aperto un fascicolo di inchiesta, «capita anche che gli agenti vengano sospesi dal servizio, con stipendio dimezzato, altre volte vengono trasferiti in un’altra struttura», spiega ancora Capece. Che respinge al mittente le accuse di negligenza: «Con questo organico non possiamo svolgere al meglio il nostro compito, soprattutto nei penitenziari più grandi di notte una sola persona sorveglia anche 100 detenuti. A Rebibbia mediamente ci sono 25 unità  in servizio nel turno di notte, distribuite su 8 padiglioni: come possono sorvegliare a dovere oltre 1.700 detenuti?».

Lo scorso 13 dicembre è stato bandito un concorso per 455 nuove guardie carcerarie, 375 uomini e 80 donne. La selezione è attesa entro l’estate, con oltre 4.200 candidati in lizza. Basterà  per risolvere i problemi della Polizia Penitenziaria?

* Fonte: Andrea Managà – L’espresso on line


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