TAV, I CONFINI DEL PROGRESSO E GLI AFFARI DELLE MAFIE

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Gli affari sporchissimi (delle mafie) e quelli, si suppone puliti, delle imprese e delle banche. Ma che vi siano fra gli uni e gli altri intrecci e convergenze di interessi non occorre dimostrare. La storia del riciclaggio di denaro sporco di tutte le mafie, in Italia e fuori, semplicemente non esisterebbe, se non si fosse trovata ogni volta l’impresa “pulita” ma disponibile a trasformare capitali sporchi in condominii, alberghi, autostrade. 
Lo scontro pro e contro il progetto Tav in Val di Susa (ma anche altrove, come nel “passante” di Firenze) non si deve svolgere dunque solo sulla fattibilità  dei percorsi o i volumi del traffico. Altrettanto importante è chi partecipa agli appalti, e se quel che intende guadagnare corrisponde alla legalità  e al pubblico interesse. Ha troppa fretta chi considera i paladini pro-Tav come moderni alfieri dello Sviluppo, bollando i loro oppositori come arcaici cultori del Ristagno. Il volume degli affari qui in ballo (compresi quelli delle mafie) è tale che sulla stessa parola “sviluppo” pesa un gigantesco equivoco. Per sviluppo, infatti, dovremmo intendere il beneficio che deriverà  al Paese e ai cittadini da una “grande opera” dopo che sia stata eseguita e sia entrata in funzione. Sempre più spesso, invece, si tende a considerare “sviluppo” l’opera stessa, la mera mobilitazione di banche e imprese, capitali (pubblici) e manodopera. Sterile progetto, se la “grande opera” si rivelasse inutile o producesse guasti ambientali e sociali.
La linea Tav già  realizzata fra Bologna e Firenze è certo un vantaggio per chi la usa, ma ha provocato la morte di 81 torrenti, 37 sorgenti, 30 pozzi e 5 acquedotti, inquinando con sostanze tossiche 24 corsi d’acqua. I responsabili delle imprese, condannati per disastro ambientale dal Tribunale di Firenze, sono stati poi assolti in appello: insomma, la strage ambientale c’è stata, ma nessuno è colpevole. Era possibile evitare lo scempio? Secondo Il Sole-24 ore, il costo per chilometro delle linee Tav in Italia è il quadruplo che in Francia: quanto di questo enorme divario si poteva spendere per salvare agricoltura e ambiente? Quanto, invece, hanno incassato le imprese interessate, e come lo stanno reinvestendo? Quale sviluppo, e a vantaggio di chi, hanno innescato quegli utili, mentre si devastavano valli e fiumi? Il loro reinvestimento sta contribuendo a risolvere la crisi senza dirottarne il costo sui più deboli e più giovani?
Tramontata ogni ipotesi di project financing sui progetti Tav, la Corte dei conti ha osservato che l’assenza di «una realistica analisi dinamica della copertura economica», ha provocato «un onere rilevantissimo per la finanza pubblica», a causa di «specifici comportamenti del management delle società  in questione», nella «penombra che ha circondato importanti negoziazioni», con «decisioni irrazionali o immotivate» che hanno «inciso direttamente o indirettamente sul patrimonio pubblico». Nonostante questo, si è tirato diritto, sulla base di una «connotazione chiaramente apodittica». Anche in Val di Susa, pur senza un’attendibile analisi costi-benefici, la Tav è considerato ineluttabile. Ma il progetto ha oltre vent’anni, le previsioni di traffico su cui si basava si sono rivelate erronee e hanno obbligato a destinarlo principalmente al traffico merci, la condivisione dei costi con la Francia è svantaggiosa. Eppure su questi ed altri motivi di perplessità , a quel che pare, è vietato discutere. Si parla, per un futuro più o meno remoto, di consultazioni con le popolazioni del luogo: un obbligo della convenzione di Aarhus, ratificata dall’Italia nel 2001 ma finora disattesa. Ma più che alle convenzioni internazionali si dà  peso agli impegni con le imprese, a costo di darvi corso manu militari. 
In un racconto di Mario Soldati, Il berretto di cuoio (1967), il protagonista, Aduo, è «lo scemo del villaggio», che però «non era affatto uno scemo», era anzi «aperto, simpaticissimo, intelligente». Ma non lavorava, non aveva un mestiere; un caso, dicevano i medici, «di sviluppo arrestato». Finché, affascinato dal cantiere dell’autostrada Torino-Piacenza, scatta la scintilla: assunto come guardiano, «lavorò per dieci», senza limiti di tempo, dall’alba a notte fonda»; sempre «scrutando con rapide occhiate» i lavori dell’autostrada, felice e attonito, con «lo sguardo che avrebbe potuto avere un assoluto responsabile, unico appaltatore, unico progettista, unico azionista dell’autostrada». Quando l’autostrada è finita, il tracollo: Aduo non può vivere senza, non mangia e non beve, viene ricoverato. Una specie di “complesso di Aduo” sembra aver preso alla gola troppi italiani, che non sanno immaginare altro sviluppo che la cementificazione del suolo. Distraendoci da altri investimenti più lungimiranti e produttivi, questo modello di crescita alla cieca è, come quello di Aduo, uno “sviluppo arrestato” che inceppa il Paese.
Una risposta autoritaria non è accettabile. È necessaria una discussione aperta e radicale, tanto più in tempi di contenimento della spesa pubblica. È giusto spendere per la Tav, quando sono allo sfascio ferrovie minori e treni notturni, anche internazionali? Non sarebbe meglio potenziare le strutture esistenti, a cominciare dalla cintura ferroviaria di Torino? È meglio costruire nuove grandi opere o arrestare il degrado dei servizi sociali e della scuola? Viene prima la difesa del paesaggio, dell’agricoltura e dell’ambiente o la (presunta) convenienza economica della Tav? Unica bussola per rispondere a queste domande, la Costituzione consacra la tutela del paesaggio e dell’ambiente: «La primarietà  del valore estetico-culturale», anzi, non può essere «subordinata ad altri valori, ivi compresi quelli economici», e pertanto dev’essere «capace di influire profondamente sull’ordine economico-sociale» (Corte Costituzionale, 151/1986). I portatori (sani?) del “complesso di Aduo” dicono il contrario: che le ragioni economiche sovrastano i principi del bene comune. Un “governo tecnico” dovrebbe avere la forza di aprire sul tema un vero tavolo di confronto. Parlare di “campagne d’informazione” a una direzione, il cui esito si dia per scontato, non ha nulla di “tecnico”. Sarebbe un gesto politico: e non è di questa politica che il Paese ha bisogno.


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