UNA GUERRA TROPPO LUNGA IN UN PAESE MAI DOMATO

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WASHINGTON – Il Pentagono sta studiando una nuova strategia per l’Afghanistan. Già  prima di questo massacro era chiaro che il conflitto è durato troppo e che è venuto il momento di allontanarsi da un Paese che nessuno ha mai domato. Il Consiglio di guerra si è svolto pochi giorni fa a Tampa, sede del Socom, il comando delle forze speciali statunitensi. Insieme all’ammiraglio William McRaven, l’uomo che ha eliminato Bin Laden, i più alti gradi del Pentagono. Tema: cosa fare nei prossimi mesi in Afghanistan. E anche senza prendere decisioni dirette — non era previsto — gli ufficiali hanno concordato sulla necessità  di accelerare il «piano Obama». Un programma che ridisegna la strategia Usa e dovrà  garantire la sicurezza a Kabul anche dopo il previsto ritiro del 2014. Tenendo conto delle richieste del presidente e delle valutazioni di un esercito di esperti, il Pentagono ha indicato alcune linee.
Primo. Le operazioni ricadranno sulle spalle delle forze speciali, assistite da reparti per la logistica e dirette da una catena di comando ad hoc. Crescerà  la collaborazione — è una promessa — con la Cia, anche se i generali, sempre molto gelosi delle loro prerogative, hanno ribadito: non saremo subordinati agli 007. L’intento è quello di creare una forza d’urto rapida e agile che mantenga la pressione sull’asse talebano-qaedista. All’interno dei confini afghani saranno i commandos di McRaven, nell’area tribale pachistana la missione toccherà  ai velivoli senza pilota. I droni sono la presenza insostituibile e il simbolo della «guerra di Obama». A costo anche di sfidare l’opposizione degli ambienti liberal e le proteste dei pachistani.
Secondo. Potenziamento della «strike force» afghana, unità  scelta locale alla quale affidare missioni delicate. McRaven vuole anche affidare al reparto i raid notturni mirati alla cattura o uccisione dei terroristi. Karzai ha spesso contestato queste operazioni perché creano frizioni con la popolazione e a volte finiscono per coinvolgere degli innocenti. Ma il Pentagono non vuole rinunciarvi in quanto hanno portato risultati. E allora saranno gli afghani a doverli condurre.
Terzo. Addestramento di soldati e agenti locali. Saranno questi uomini a pattugliare città  e villaggi, a loro spetterà  vegliare sulla transizione come sul dopo. La Nato ha investito molto nel progetto con risultati alterni. Ricercatori di centri studi e analisti dell’intelligence non lasciano spazio a troppe speranze. Uno degli ultimi rapporti non ha nascosto un pessimismo nero sulla capacità  dei governativi di tenere. La cosa è piaciuta poco al Pentagono, ma è la verità . Resa ancora più indigesta dalle notizie su corruzione e traffici d’ogni tipo. Le ultime hanno denunciato il contrabbando di droga su aerei militari afghani.
Quarto. Le iniziative militari si incrociano con quelle diplomatiche. L’obiettivo è quello di arrivare al negoziato con i talebani. In queste ore si sono registrati alcuni progressi attraverso il canale aperto nel Qatar. Coinvolgere gli insorti — quelli «buoni» o tutti — è il tentativo di evitare che il governo sia spazzato via una volta che il contingente abbia tolto le tende. Oppure il solo modo per «vendere» alle opinioni pubbliche l’idea che ce ne possiamo andare tranquilli. Appesi a questi quattro «uncini», gli alleati provano a tirarsi fuori dall’Afghanistan. E certamente episodi come il massacro di Kandahar bruciano le scarse riserve di fiducia. Ma al tempo stesso rendono chiaro che il conflitto è durato troppo e che è venuto il momento di allontanarsi da un Paese che nessuno ha mai domato.


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