Conti nelle banche svizzere Ok dell’Ue, l’Italia dice no

by Editore | 20 Aprile 2012 8:53

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Il via libera che Monti aspettava (o meglio, diceva di aspettare) dalla Commissione europea per firmare – come hanno già  fatto la Germania, la Gran Bretagna e pochi giorni fa anche l’Austria – un accordo bilaterale con la Svizzera per tassare alla fonte i capitali nazionali esportati nelle banche della Confederazione elvetica, è arrivato. Mercoledì sera il commissario alla fiscalità  Algirdas Semeta ha annunciato in conferenza stampa che il testo degli accordi firmati da Merkel e Cameron a dicembre, e corretto la settimana scorsa dopo gli appunti sollevati dalla Commissione, soddisfa «le aspettative sia dell’Unione europea che degli Stati membri». A questo punto non ci sono più scuse per il premier italiano che finora aveva tentennato, perso tempo in attesa che la faccenda venisse affrontata in sede comunitaria, e di fatto adottato la strada dei niet di Tremonti, che agli accordi con Berna ha sempre preferito la politica degli scudi fiscali. 
E invece il patto firmato venerdì scorso, su proposta della presidente della Confederazione Micheline Calmy-Rey, dal cancelliere austriaco Werner Faymann, frutterà  a Vienna nell’immediato qualcosa come tre miliardi di euro per i capitali già  depositati (con una tassazione «una tantum» del 25%), senza considerare i prelievi annui stabiliti su un’aliquota fissa del 25% sugli interessi maturati (altri 50 milioni l’anno). Ora, basta fare due conti per capire che se l’Italia decidesse di seguire la stessa strada e firmare con il «paradiso fiscale» europeo la convenzione che ricalca in larga parte un modello prestabilito, il cosiddetto Rubik, si potrebbe ottenere un incasso dieci volte superiore a quello austriaco. Secondo le stime più accreditate, infatti, i depositi degli italiani nelle banche svizzere (non tutti contenenti necessariamente capitali evasi) si aggirano nel complesso attorno ai 150 miliardi di euro, a fronte dei 12 miliardi di euro austriaci. Su quest’ultimo recente accordo il commissario Semeta non si è voluto esprimere, essendo il testo ancora all’analisi dei tecnici europei. Diverso il discorso della recente ratifica degli accordi tra Berna e Bonn (che stima il capitale tedesco depositato in Svizzera attorno ai 300 miliardi), e con Londra (70 miliardi). Infatti, alla fine dello scorso anno la Commissione Ue per la fiscalità  aveva sollevato alcune critiche su questi testi perché non rispettavano le disposizioni comunitarie in materia di Iva (l’Italia aveva già  subito una condanna della Corte europea per lo scudo fiscale, perché tra le imposte non versate scudate era compresa l’Iva, appunto). Cosicché il nulla osta europeo è arrivato solo pochi giorni fa, dopo che i testi degli accordi sono stati corretti.
Dunque, se con la Svizzera il governo Monti stipulasse un accordo simile a quello firmato dalla Grosse Koalition viennese, ad esempio, nelle casse dell’erario italiano potrebbero confluire fino a 37 miliardi di euro subito, e almeno 600 milioni l’anno. Eppure il governo tecnico non ne vuole sapere, almeno finora. «Siamo rimasti molto meravigliati – racconta Stefano Vescovi, consigliere economico dell’ambasciata elvetica a Roma – quando giovedì scorso (12 aprile, ndr) abbiamo sentito il sottosegretario all’economia Vieri Ceriani dire che questo tipo di negoziati con la Svizzera non si possono fare perché la Confederazione non applica gli standard dell’Ocse. Eppure abbiamo ratificato con circa venti Paesi europei convenzioni contro la doppia imposizione fiscale, proprio per applicare gli standard internazionali dell’Ocse riguardo lo scambio di informazioni riservate e aggiornare altri accordi come quello sui lavoratori transfrontalieri (gli italiani sono circa 50 mila, ndr)». Gli accordi bilaterali tra Berna e i singoli Stati, spiega Vecovi, sono strutturati su uno stesso modello base: «Il governo confederale obbliga le banche elvetiche a tassare una tantum alla fonte i capitali depositati e ad applicare un’aliquota annua sugli interessi maturati proporzionale alle aliquote degli stati d’origine. A fronte del guadagno certo degli Stati firmatari, la Svizzera mantiene il segreto bancario, sempre tranne nei casi di proventi da attività  criminali e da frode». L’orientamento dell’Unione europea, comunque, rimane lo scambio automatico di informazioni in materia fiscale. Posizione ovviamente non condivisa né dalla Confederazione elvetica – con la quale recentemente, anche la Grecia ha annunciato l’avvio dei negoziati – né tantomeno dall’Austria, dove il segreto bancario è norma costituzionale.

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