Donne giraffa nella gabbia del «turismo antropologico»

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Dimostrazione terribile arriva dal Nord della Thailandia, dove i villaggi delle minoranze Karen, Meo, Rao, Lisu, per citarne alcune, sono divenuti, nell’arco di pochi decenni, mete di occidentali e non solo, che arrivano lì convinti di aver compiuto un’eroica impresa, e si ritrovano a bere Coca-Cola, a dormire in capanne fintamente tipiche, a comprare souvenir prodotti in serie. Oppure, epigoni assai tardivi dei frikkettoni, a disfare la loro esistenza, attaccati alla canna di una pipa da oppio. Il business è grasso, e il governo thailandese lo sfrutta con attenzione. Chiang Mai e Chiang Rai, un tempo luoghi urbani di modeste dimensioni, sono campi base per migliaia di trekking tribali. In questa ignobile esposizione ad uso del turista, c’è una vicenda che dimostra, una volta di più, come al peggio non ci sia limite. La racconta, in un bellissimo libro, Lo zoo delle donne giraffa, l’antropologo Martino Nicoletti. Il luogo si chiama Mae Hong Son, ieri perduto tra le montagne, oggi dotato di un piccolo aeroporto. A corta distanza sorgono tre villaggi, Ban Mai Nai Soi, Huai Sua Thao, Huay Pu Keng, in cui vivono le donne della minoranza birmana Kayan; Padaung, «Coloro che indossano le spirali di ottone», nella lingua Shan. Le donne giraffa, appunto. 
I Kayan, originari dello stato di Kayah, porzione estrema della Birmania centro-orientale, a partire della seconda metà  dell’800 si ritrovano stretti nella morsa di regimi di stampo feudale, nel pugno di ferro della colonizzazione, in mezzo al fuoco della guerriglia che combatte il governo nato nel 1948 dall’Indipendenza della Birmania, nel colpo di stato del 1962 con a capo il generale Ne Win. I rastrellamenti che la giunta militare inizia a praticare su larga scala a partire dagli anni ’90, allo scopo di smembrare qualsiasi alleanza delle tribù con i movimenti dei guerriglieri, portano i Kayan a percorrere l’unica via di scampo possibile: scappare, per evitare la riduzione degli uomini in schiavitù. La Thailandia, confine assai vicino, è speranza a portata di mano. I campi profughi accolgono anche i Kayan, poco più di cinquecento, ma le donne giraffa attirano subito l’attenzione del governo, che vede la possibilità  di trasformarle in attrazione turistica. Il piccolo popolo cade nella trappola del conferimento dello status di Chao Khao, ovvero «Tribù delle montagne», acquisendo una serie di diritti (istruzione, assistenza medica, formazione professionale), ma anche di doveri, anzi di obblighi. Scrive Nicoletti: «I membri delle minoranze etniche di montagna non hanno licenza di circolare liberamente in Thailandia, né tanto meno di allontanarsi dal proprio distretto di appartenenza… Nel caso specifico dei Kayan… si aggiunge la rinuncia esplicita a ogni richiesta di rimpatrio volontario in Birmania, nonché la cancellazione da ogni programma di accoglienza per rifugiati in paesi stranieri… Grazie a questa ‘oculata’ strategia amministrativa destinata a concentrare, controllare e tesaurizzare la presenza dei Kayan in suolo thailandese, i membri di questa etnia sono stati trasformati in una vera e propria attrazione turistica, in grado di richiamare ogni anno circa diecimila visitatori». 
La «scoperta» delle donne giraffa da parte di Nicoletti era avvenuta, tempo prima e per caso, in una libreria di Luang Prabang, Laos, curiosando tra polverose cartoline d’epoca. Martino rimane affascinato dal ritratto di un’anziana, il collo allungato e sorretto da una lunga fila di anelli in ottone: «La testa e il collo erano visibilmente sproporzionati rispetto al minuto ed esile busto. In un precarissimo equilibrio, questi sembravano essere stati appoggiati lì sopra solo un istante prima, giusto il tempo di scattare una foto». 
È quella foto a servire da sprone, a far maturare nell’antropologo la decisione di partire per Mae Hong Son, e fermarsi tutto il tempo necessario a narrare, con taglio che unisce il rigore dello studioso all’annotazione del viaggiatore sensibile, il dramma delle donne giraffa. Dicevamo di un libro bellissimo. Lo è, al pari del breve documentario che lo accompagna, scandito dalla voce dell’ex Cccp, Csi, Pr, Giovanni Lindo Ferretti. Nicoletti, con le parole e le immagini, consegna alla nostra coscienza di gente del Primo Mondo un lungo e a tratti dolente reportage, che ha per protagoniste bambine, ragazze, vecchie, guardate dai turisti, dietro gli occhiali da sole o nell’inquadratura della macchina digitale, come fenomeni da baraccone. Nessuno chiede loro nulla, tutti comprano i souvenir dozzinali, e tutti hanno pagato in bath (la moneta locale) il biglietto d’ingresso corrispondente a sei euro. È il biglietto d’ingresso a uno zoo che costringe una giovane a suonare la chitarra, un’altra a sorridere, una madre a mettersi in posa con il proprio bambino, un’anziana a forgiare per i turisti gli anelli di ottone. 
Tempo fa, Zember, donna Kayan, si è tolta pubblicamente gli anelli dal collo in segno di protesta. Un senatore del parlamento di Bangkok, ha affermato durante una seduta: «I thailandesi sono insensibili nei confronti delle minoranze etniche. E le tribù delle colline sono sempre state un’attrazione redditizia». Inutile chiedersi se queste voci di dissenso, e magari altre a venire, serviranno a qualcosa. Ma le donne Kayan hanno un’arma di difesa, una frase muta, colta da Martino Nicoletti dietro i loro sguardi. Grida nel suo silenzio, quella frase, «Non devo guardarti negli occhi». Gli occhi vuoti dei turisti, gli occhi senza pietà  degli uomini di governo.


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  La ministra Kyenge- Foto: www.facebook.com/Repubblica

“La Kyenge se ne torni nella giungla”….ebbe a dire un consigliere circoscrizionale di Trento Serafini, appartenente a una lista in teoria “moderata” e di “ centro” nata per gareggiare alle elezioni provinciali del prossimo ottobre, che si chiama Progetto Trentino (non male come progetto).

In realtà la Kyenge è nata a Kambove in Katanga nella Repubblica Democratica del Congo. Qui della giungla richiamata da Serafini non v’è traccia da decenni causa deforestazione. L’estrazione di rame e cobalto, infatti, hanno privato il territorio della sua foresta pluviale tropicale.

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