Ecco i «giacimenti» inutilizzati di lavoro

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Il grafico qui accanto mostra quanto emerge dall’ultimo censimento svolto da Unioncamere, nel 2011: ne risultano 117.000 posizioni di lavoro disponibili, sparse in tutte le regioni italiane, distribuite in tutti i settori e tra tutti i livelli professionali.
Gli studiosi di economia e di sociologia del lavoro avvertono, peraltro, che gli skill shortages effettivi sono molti di più: almeno mezzo milione. Così come per ogni disoccupato che cerca lavoro si stima che ci siano almeno tre «lavoratori scoraggiati», potenzialmente interessati a trovare un lavoro ma che non ci si provano neppure, allo stesso modo ci sono gli «imprenditori scoraggiati»: cioè quelli che avrebbero bisogno di personale qualificato, ma considerano talmente improbabile trovarlo che non fanno neppure l’inserzione sul giornale o la richiesta all’agenzia di collocamento.
Per mettere questo giacimento di occupazione a disposizione dei nostri disoccupati, o dei lavoratori che cercano un nuovo lavoro, basterebbe che un servizio specializzato facesse per ognuno di essi il bilancio delle competenze, individuasse i due o tre skill shortages più vicini professionalmente e geograficamente e delineasse i percorsi di riqualificazione professionale necessari per accedere a ciascuno dei due o tre posti individuati (preferibilmente in collaborazione con l’impresa interessata, utilizzando e retribuendo i suoi impianti e il suo personale qualificato). Tra questi il lavoratore interessato dovrebbe scegliere quello che meglio corrisponde alle sue aspirazioni ed esigenze familiari, per poi intraprendere l’itinerario di formazione necessario.
Si obietta che i servizi pubblici per l’impiego non sono in grado di svolgere questo compito. Le agenzie private dioutplacement, però, sì. Oggi in Italia sono poco utilizzate, perché non abbiamo ancora maturato la cultura dell’assistenza intensiva al lavoratore nella ricerca dell’occupazione; ma ci sono anche da noi, e funzionano bene. La tabella qui sopra, per esempio, mostra in quanto tempo sono stati ricollocati tra 2010 e 2011 da una delle maggiori società  che svolgono questo servizio in Italia 2.961 impiegati e 1.637 operai, affidati loro da imprese in situazioni di crisi occupazionale.
Certo, i servizi di outplacement costano cari (mediamente, l’equivalente di cinque o sei mensilità  dell’ultima retribuzione del lavoratore interessato). Ma sempre meno della cassa integrazione «a perdere»: si potrebbe attivare un buon incentivo per l’azienda che licenzia, affinché essa ingaggi l’agenzia più adatta al compito; e le Regioni farebbero soltanto il loro dovere se riqualificassero drasticamente la propria spesa in questo settore, prevedendo il rimborso di tre quarti o quattro quinti del costo standard di mercato del servizio. Per questo potrebbe e dovrebbe essere utilizzato anche quel 60 per cento dei contributi del Fondo Sociale Europeo che spetterebbero all’Italia, ma che finora non siamo stati capaci di utilizzare per inadeguatezza delle nostre iniziative nel mercato del lavoro rispetto ai requisiti di efficienza ed efficacia giustamente posti dal Fondo stesso.
Oggi il fabbisogno prevedibile di qualifiche professionali scarse si potrebbe conoscere in anticipo per ogni zona e per ogni settore produttivo. Che cosa aspettiamo ad attivarci per porre questo giacimento occupazionale a disposizione dei tanti italiani che hanno difficoltà  a trovare un lavoro?
Un altro giacimento da cui potremmo trarre flussi di centinaia di migliaia di nuove assunzioni ogni anno è costituito dagli investimenti stranieri, che l’Italia è stata fin qui drammaticamente incapace di attirare: per questo aspetto, in Europa solo la Grecia ha fatto peggio di noi nell’ultimo ventennio. Se soltanto fossimo stati capaci di allinearci a un Paese mediano nella graduatoria europea, come l’Olanda, nell’ultimo quinquennio prima dello scoppio della crisi (2004-2008) questo avrebbe significato un maggiore afflusso di investimenti nel nostro Paese pari a 57,6 miliardi all’anno (vedi tabella sopra). E negli ultimi quattro anni di crisi economica il nostro ritardo su questo terreno è ulteriormente peggiorato rispetto agli altri Paesi europei.
Quando si discute di questa gravissima chiusura dell’Italia, gli «addetti ai lavori» tendono sempre a sottolineare che la nostra scarsa attrattività  per gli investitori stranieri è dovuta ai difetti delle nostre amministrazioni pubbliche (soprattutto di quella della Giustizia) e delle nostre infrastrutture di trasporto e di comunicazione, al costo dell’energia e dei servizi alle imprese più alto da noi che oltr’Alpe. Ma nel documento che il Comitato Investitori Esteri presieduto da Giuseppe Recchi ha presentato al governo nel dicembre scorso viene indicato, tra i primi, un altro ostacolo: la nostra legislazione del lavoro ipertrofica, bizantina, non traducibile in inglese, e nettamente disallineata rispetto a quelle dei maggiori Paesi europei su di un punto di importanza cruciale: la prevedibilità  delseverance cost, cioè del costo del licenziamento per motivi economico-organizzativi, quando l’aggiustamento degli organici si rende necessario. Questo è il motivo, molto serio, per cui il governo punta a una riforma della materia che, come in tutti gli altri ordinamenti europei — Germania compresa —, consenta la predeterminazione del costo del licenziamento per motivi economici.


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