Greenpeace, In nave con gli ecologisti anti-saccheggio “Basta depredare il mare dell’Africa”

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La ricchezza dell’Africa scintilla al sole per l’ultima volta, brulica di vita ancora un attimo, poi viene risucchiata veloce in un tubo nero e trasferita sul ponte della «Sirius», arrivata fin nelle acque della Mauritania dal porto polacco di Gdynia. Visti dall’elicottero, sardine, sardinelle, sgombri sono un fiume d’argento che scorre in pochi minuti dall’Atlantico alle stive refrigerate del peschereccio. Il frastuono delle sule e dei gabbiani che a centinaia si avventano sui pesci persi dalle reti non disturba i marinai, impegnati su enormi verricelli per ritirare le reti oceaniche lunghe duecento metri. È importante svuotarle in fretta, anche a costo di sprecare una parte del pesce, che torna in mare, morto ma inutilizzato. Le reti scendono in acqua tre, quattro volte al giorno, perché la trasferta sia lucrosa.
Ma stavolta l’attività  dura poco. I pescatori polacchi hanno adocchiato l’Arctic Sunrise, la nave appoggio di Greenpeace, vedono l’elicottero sopra la testa e i gommoni in arrivo. Sanno che è il momento dell'”Azione diretta non violenta”, con i militanti che si accostano alla nave e scrivono “Plunder”, Saccheggio, sul fianco, perché finisca su più giornali e teleschermi possibile. Meglio la fuga: la Sirius ritira le reti d’urgenza e parte verso Nord, a pieno vapore: troppo veloce per l’ex rompighiaccio degli ambientalisti. Due settimane fa è andata meglio, con sette navi “dipinte” in un giorno solo.
La zona di pesca è un centinaio di chilometri al largo della penisola di Cape Blanc, al confine con il Sahara occidentale. Poco lontano dalle navi europee una dozzina di piroghe aspetta di recuperare pochi metri di rete da boe autarchiche, costruite con vecchi bidoncini e bottiglie di plastica. I pescatori mauritani sono arrivati fin qui spremendo allo spasimo i piccoli fuoribordo Mercury rosi dalla salsedine. Si affacciano dal tendalino di plastica, l’unico riparo per una trasferta che può durare anche due settimane, e salutano l’elicottero di Greenpeace.
Sulla spiaggia di Soumbedioune, a Dakar, le piroghe senegalesi tornano all’imbrunire. Sono barchette di sei metri, non possono permettersi trasferte lunghe. «Se potessi comprarne una di nove metri, andrei più lontano, prenderei più pesce», si lamenta Mohamed N’duei: «Oggi non è stato un gran che, ho guadagnato 3000 franchi Cfa». Sono poco meno di cinque euro, e non bastano per andare avanti. Il mercato sulla spiaggia sembra un trionfo di orate, sgombri, cernie, barracuda, pagelli. Ma è un’illusione. «Vendo pesce da quando avevo 15 anni, oggi ne ho 53», racconta Njisseli, avvolta in un foulard coloratissimo: «Ogni giorno è più difficile. Ho due figli, continuano ad andare a pesca perché non c’è altra possibilità , ma ormai non ce la facciamo più». 
L’Atlantico è sempre più vuoto, gli accordi commerciali fra i governi africani e le compagnie europee hanno danneggiato le comunità  costiere. «Il problema», sintetizza Pavel Klinckhamers, responsabile della campagna di Greenpeace, «è che la Commissione preferisce comprare quote di pesca dai paesi africani piuttosto che prendere una decisione coraggiosa e imporre una riduzione della capacità  di prelievo dell’Europa. E questo mentre continua a finanziare le flotte da pesca con denaro dei contribuenti». Eppure gli stessi dati europei sottolineano che i pescherecci del vecchio continente sono già  ora in grado di pescare da due a tre volte di più di quanto gli oceani possano rigenerare.
Annichiliti i mari europei, impoverito il mare del Nord, le flotte europee si sono affacciate sulle risorse ittiche dei paesi poveri, con pescherecci lunghi fino a 140 metri. Sono mostri capaci di ingoiare 250 tonnellate di pesce in un giorno, per congelarlo e portarlo a Las Palmas, nelle Canarie, da dove viene distribuito e spesso ritorna sui mercati africani, a un prezzo che distrugge ogni mercato per i pescatori locali. In cambio dei permessi di pesca nelle acque di interesse nazionale, un paese come la Mauritania riceve dall’Europa 75 milioni di euro l’anno: in altre parole, un peschereccio paga per la licenza circa 3500 euro al mese, meno di quello che gli costa la connessione internet via satellite. In testa alla classifica dei predatori c’è la flotta spagnola, un quarto del tonnellaggio europeo complessivo, su cui l’Europa può contare per oltre il 15 per cento del consumo continentale. I pescherecci italiani “valgono” il 10,3 per cento del totale europeo, assieme agli impianti di acquacoltura producono il 7,33 del consumo Ue.
Ma la situazione è sull’orlo del tracollo. «Anche se legali, gli accordi internazionali non sono sostenibili biologicamente, né socialmente responsabili», dice Iris Menn, di Greenpeace. Macky Sall, neoeletto presidente del Senegal, è stato il primo capo di Stato a prendere l’impegno di difendere le comunità  locali. Ed è facile prevedere che se le risorse tradizionali spariscono, anche sulle coste occidentali dell’Africa nascerà  una nuova pirateria come quella che imperversa al largo della Somalia.


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