Il “Manifesto” firmato da Ginsborg e altri intellettuali indica una strada possibile

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Il Manifesto per un soggetto politico nuovo. Per un’altra politica nelle forme e nelle passioni”, redatto da Paul Ginsborg e da altri intellettuali è in primo luogo una denuncia precisa e severa dello stato di degrado profondo della vita politica italiana: “Oggi in Italia meno del 4 per cento degli elettori si dichiara soddisfatto dei partiti politici come si sono configurati nel loro paese. Questo profondo disincanto non è solo italiano. In tutto il mondo della democrazia rappresentativa i partiti politici sono guardati con crescente sfiducia, disprezzo, perfino rabbia”.
Chiunque conosca, anche se in modo superficiale, la storia politica europea, e quella italiana in particolare, non può non allarmarsi di fronte a questo scenario: quando i cittadini disprezzano tutti i politici, sono pronti ad applaudire e a seguire un leader che prometterà  loro di dare una salutare lezione ai partiti, poco importa se l’opera di pulizia porterà  anche alla distruzione delle istituzioni democratiche.
La proposta del ‘Manifesto’ per curare il declino della politica si può descrivere, in modo sintetico, come un appello a operare per riscoprire una democrazia fondata non soltanto sul sistema elettorale proporzionale (idea quanto mai saggia), ma su una rinnovata e ritrovata volontà  di partecipazione dei cittadini alla vita pubblica: “Tra i cittadini è cresciuto il desiderio di riappropriarsi di ciò che è comune, non solo beni ma anche processi. La democrazia si allarga e diventa più inclusiva”. Le recenti elezioni amministrative e i referendum sull’acqua, sul nucleare, e sul legittimo impedimento, per non parlare delle molte forme di resistenza intransigente al regime berlusconiano, hanno dimostrato che esiste una parte, minoritaria ma non irrilevante, di cittadini che non si limita a esprimere il proprio disgusto verso i partiti ma vuole essere protagonista. Ci sono insomma ancora uomini e donne che non vogliono vivere la propria vita come spettatori passivi di uno spettacolo deprimente, ma riappropriarsi del bene comune più importante di tutti, perché condizione di ogni altro, vale a dire l’azione politica.
ALLA RADICE dell’impegno dei cittadini che si sono mobilitati per i beni comuni contro il degrado della politica ci sono, anche questa volta, le passioni più che i calcoli e i ragionamenti. Su questo punto l’analisti del ‘Manifesto’ è particolarmente felice: “Le regole formali, preziose e insostituibili, non sono sufficienti […]. A esse va associata la lenta ma costante creazione di una cultura profondamente diversa. […] Certe emozioni e i comportamenti sociali che ne derivano costituiscono invece una risorsa preziosissima per la sfera pubblica politica: la compassione e la gioia, l’amore e la speranza, la generosità  e il rispetto per gli altri”.
È del tutto comprensibile la preoccupazione di chi, come Stefano Rodotà , sottolinea che le passioni non sono sufficienti a “produrre direzione politica”, e che non ci si può affidare “unicamente a una spontaneità  colorata da emozioni” (‘Il Manifesto’ 12. 04. 2012). Ma è del pari vero che senza le buone passioni non è mai nato alcun movimento o partito politico che abbia saputo realizzare, o contribuire a realizzare, conquiste significative di libertà  e di giustizia. Il movimento socialista, in Italia e in Europa, è nato e si è rafforzato, e ha aiutato milioni di uomini e di donne a vivere con più dignità , fino a quando i suoi dirigenti, e i suoi militanti erano sostenuti da un fortissimo amore della giustizia e della libertà , dallo sdegno contro lo sfruttamento degli esseri umani, contro la corruzione, contro le guerre di conquista, contro l’arroganza dei potenti. Quando i leader della sinistra, a cominciare da Bettino Craxi fino a Massimo D’Alema, hanno messo in primo piano i calcoli, i pacati ragionamenti e le sottili tessiture di accordi con gli avversari è finito tutto. No, grazie, ai politici calcolatori abbiamo già  dato.
Il difficile, e su questo Rodotà  ha ragione, è trasformare le passioni in azione politica vincente, vale a dire capace di portare nei Comuni, nelle Regioni, e soprattutto in Parlamento, persone degne, in grado di fare buone leggi, abrogare le cattive, ispirare con le parole e i comportamenti una rinnovata e ritrovata etica civile degna di questo nome.
ANCHE SE è diventato trito luogo comune dire che la politica che conta non si fa più nelle assemblee legislative, le qualità  dei leader e la composizione dei Parlamenti fanno ancora molta differenza, e senza azione legislativa le passioni, anche le migliori, si raffreddano e si disperdono.
Il ‘Manifesto’ propone a questo proposito di rompere radicalmente con “il modello novecentesco del partito” in nome di una struttura confederale ispirata a criteri di eguaglianza. Posto che nessuno è in grado di prevedere come e quando un partito si afferma e un altro scompare (chi aveva previsto la scomparsa, ad esempio, del Psi, una forza politica che aveva saputo rinascere dopo il fascismo; chi aveva previsto la vittoria di Forza Italia nel 1994?) credo che il punto fondamentale sia, più che la forma organizzativa, la sostanza politica e morale dei leader e dei militanti. L’ideale dei beni comuni, potrà  diventare azione politica efficace, in altre parole, se saprà  ispirare una nuova leadership politica e motivare una nuova generazione di militanti. Il lavoro da fare è molto e lo stesso ‘Manifesto’ deve essere arricchito, ma il punto di partenza è giusto, e vale la pena lavorarci.


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