IL VERO ALLARME È SULLA CRESCITA

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Ma stavolta sarebbe davvero un serio errore di prospettiva leggere questi scivoloni come l’ennesimo avvertimento a rincarare la dose dei tagli alla finanza pubblica. Il mini-tsunami finanziario di ieri per unanime e planetaria convinzione nasce tutto da fattori connessi all’economia reale. È da questo terreno, infatti, che stanno arrivando segnali particolarmente allarmanti che investono le due principali potenze mondiali. Negli Usa si sta aprendo la stagione dei primi rendiconti trimestrali delle aziende e le previsioni sono nettamente di profitti in calo. Da Pechino poi giunge la conferma che il temuto rallentamento della grande locomotiva cinese è ormai un dato di fatto reso esplicito dalla frenata delle importazioni.
Se fino a ieri dinanzi alle brusche altalene sui mercati era possibile almeno in parte consolarsi con la tesi dell’irrazionalità  dei movimenti speculativi, ora la questione sta cambiando pericolosamente di segno. Non è più soltanto la fragilità  contabile di alcuni Paesi a innescare ondate di vendita nelle Borse, le paure maggiori nascono dalla sfiducia sul futuro immediato delle attività  produttive. Insomma, dal serio rischio che anche le più prudenti stime di crescita dell’economia mondiale dovranno essere ridimensionate in corso d’anno. Con conseguenti riflessi sugli investimenti e quindi sui livelli dell’occupazione, soprattutto nei Paesi occidentali fra i quali gli europei per primi.
In un Paese come l’Italia questo mutamento del quadro internazionale riporta con prepotenza in primo piano il tema finora più trascurato dei tre impegni proclamati dal governo Monti: quello degli stimoli alla crescita. La strategia dei due tempi – prima il rigore con l’equità  e poi, appunto, la crescita – appare ormai superata dagli eventi. Alla lunga i mercati si rivelano sempre intelligenti. In questi mesi hanno dato chiari giudizi di apprezzamento per l’austerità  fiscale realizzata nel Paese senza troppi contrasti sociali, come ha testimoniato il corso finora discendente del differenziale coi titoli tedeschi. Ma ora giustamente cominciano a chiedersi se la minaccia di default scongiurata con misure rapide di fiscalità  straordinaria non possa ripresentarsi da un altro lato: quello di una caduta della crescita tale da vanificare il risanamento momentaneo dei conti per effetto dell’impoverimento collettivo del Paese. Esito che renderebbe ancor meno sostenibile nel medio periodo l’abnorme debito pubblico accumulato.
Il governo Monti ha voluto caricare sulle spalle proprie e del Paese un impegno particolarmente gravoso: quello di raggiungere il pareggio di bilancio entro la fine del prossimo anno. Per arrivare a questo traguardo ha impostato una politica fiscale di insolita durezza, sicuramente necessaria in prima battuta per riconquistare quella credibilità  sui mercati che era stata dissipata dalla gestione precedente. Ma poi ha creduto o fatto finta di credere che chissà  quali stimoli alla crescita potessero venire da provvedimenti di malcerta gestione e di dubbia efficacia come i decreti sulle liberalizzazioni o sulla semplificazione, finendo poi per infilarsi in una riforma del mercato del lavoro che – pure al netto dell’inutile teatrino sull’articolo 18 – potrà  forse dare qualche beneficio nell’arco di alcuni anni. Quel che sta accadendo ora sui mercati non dice che la strada intrapresa sia sbagliata, ma indica che il passo deve essere accelerato e che la vera e indispensabile “svolta storica” va attuata sul terreno dell’economia reale.
Compito che travalica sicuramente i confini del Paese e postula una mobilitazione in chiave europea. Terreno sul quale Mario Monti ha oggi tutte le carte in regola per ingaggiare battaglia. La campana dei mercati ha suonato per tutti.
Perciò, se non ora, quando?


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