Italia a mano armata. Una famiglia su sei ha una pistola in casa

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In Italia siamo in grado di certificare dove è nato un uovo o da dove proviene un pomodoro, sappiamo tutto quello che attiene un prodotto alimentare che arriva sulle nostre tavole, ma non abbiamo una tracciabilità  per le armi leggere».
Nonostante anni di tentativi per regolare il mercato, l’Italia, come spiega Francesco Vignarca, della Rete italiana per il disarmo e Tavola della Pace, resta un Paese a «mano armata». Un Paese dove si spara sempre di più, come hanno dimostrato anche gli ultimi due casi di ieri (il tabaccaio di Padova che ha ucciso un moldavo dopo un tentativo di rapina e l’omicidio di Arzignano per questioni di eredità ), dove crescono le richieste per avere un porto d’armi, ma dove ogni tentativo di regolare un settore in forte espansione è stato ostacolato in ogni modo.
Cercare dei dati ufficiali sul numero delle armi detenute dagli italiani è come cercare un ago in un pagliaio. Neanche le associazioni dei produttori li hanno. Solo l’Eurispes ha fornito, qualche anno, fa un quadro chiaro spiegando che in Italia le armi legali, cioè regolarmente denunciate, sono oltre dieci milioni e che una famiglia su sei è armata, cioè dotata in casa di almeno una pistola. Nel 2007 i numeri erano questi: le persone in possesso di armi da fuoco erano 4,8 milioni, cioè l’8,4% della popolazione. Così divise: 34mila privati con un porto d’armi, oltre 50mila guardie giurate, 800mila cacciatori con licenza per abilitazione all’esercizio venatori, 200mila permessi per uso sportivo. Il resto, tre milioni circa, ha denunciato, invece, la presenza di armi in casa, ereditate o da collezione. In cima alla lista delle città  più «armate» d’Italia Torino e Milano, seguite da Roma e provincia, con circa 2 milioni di armi. Tutte a norma.
Eppure non è questo il dato che allarma. Secondo l’istituto di analisi statistiche quello che dovrebbe far riflette è il fatto che in Italia c’è un aumento costante delle richieste per la concessione di un porto d’armi (richieste che per la maggior parte non vengono accolte). Nella sola Capitale, ad esempio, si è passati dalle 5mila del 2003 alle 11mila del 2006 per arrivare alle quasi 15mila di tre anni fa. Questo anche in virtù di una nuova normativa, la legge 59 del 2006, che dilatò il criterio di legittima difesa introducendo il rapporto di proporzione rispetto all’offesa se si utilizza come extrema ratio un’arma legittimamente detenuta.
Questi sono i dati ufficiali, gli ultimi in circolazione. Veritieri, ma certamente in difetto. Perché, come spiega ancora Vignarca, «in Italia non si sa quante siano veramente le pistole in mano alle persone». Per capire come possa esistere un mercato parallelo e sotterraneo basta fare un salto a Brescia. Dove lo scorso 8 marzo sono comparsi davanti al Gup della città  14 persone, tra queste anche Ugo Gussalli Beretta, proprietario della storica società  di armi, il senatore Pd Luigi De Sena, vice presidente della commissione antimafia, più altri dodici indagati. Secondo la procura, a vario titolo, i quattordici sono accusati dei reati di illecito commercio di armi, illecita detenzione e cessione. Perché? La contestazione fa riferimento a armi che sarebbero uscite dalla Beretta e finite all’estero. Armi che non esistono nei registri ufficiali, armi «fantasma», ma che sono finite in Iraq. Ma come hanno fatto ad arrivarci? In sostanza, come ricostruito dagli inquirenti, il ministero degli Interni nel 2003 avrebbe ceduto all’azienda bresciana le Beretta in dotazione ai vigili urbani di Roma: 44.926 pistole 92s. Le armi, definite fuori uso, sarebbero state rimesse a posto e poi rivendute a una società  inglese, e alcune per la procura 16 esemplari sarebbero state trovate in possesso dei guerriglieri iracheni. Se era un passaggio non legittimo sarà  il tribunale a stabilirlo (il prossimo 21 giugno) ma quello che resta da spiegare è come sia possibile che un quantitativo così corposo di armi fosse rimasto sotto traccia.
Non si sa quante armi leggere
ci siano effettivamente in Italia, quindi, ma ci vantiamo di avere una tra le normative più severe per il rilascio del porto d’armi. Secondo la legge, infatti, oltre alla maggiore età , occorre avere anche un fedina penale bianca. Per inoltrare la richiesta al prefetto occorre poi una certificazione di idoneità  psico-fisica e, per chi non ha fatto il servizio militare, un’idoneità  rilasciata da un poligono. La licenza che è valida per cinque anni (ma va rinnovata annualmente) tra certificati, marche da bollo e abilitazioni al tiro ha un costo minimo, poco più di 150 euro.
«Ma queste norme sono severe solo sulla carta» ci spiega la senatrice del Pd Marilena Adamo autrice di una proposta di legge che giace ancora in Parlamento. «La legge attuale si basa ancora sul concetto di onorabilità  della persona, sulla sua fedina penale». L’idoneità  psico-fisica è prevista «ma è stata demandata a regolamenti ministeriali che non sono mai stati fatti». Ma il punto vero, quello per cui anche l’Adamo si batte, è quello di «mettere in comunicazione la pubblica sicurezza con il sistema sanitario nazionale». A cosa servirebbe? A sapere, ad esempio, in tempo reale se chi chiede un porto d’armi non abbia solo «la fedina penale pulita ma non sia mai stato sottoposto a un trattamento sanitario obbligatorio». Oggi questa comunicazione non c’è. E chissà  se mai ci sarà .
Anche perché in pochi hanno intenzione di andare contro alla potente industria bellica in Italia. Da anni siamo stabilmente ai primi posti nella classifica mondiale dei produttori: si stima che ogni anno si producano oltre 629.152 armi, in proporzione una ogni 10 persone. Il giro d’affari complessivo supera i 2 miliardi di euro tra produzione e indotto (abbigliamento, oggettistica, accessori), con oltre 5mila addetti.
Perché porre un freno a tutto questo?


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