La folle corsa dell’Eurozona

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Dopo l’euforia, il crollo. Questi mercati sono proprio incorregibili: più fai (manovre sanguinose sui deficit pubblici di tre quarti d’Europa) e meno apprezzano. Ma una spiegazione c’è, anche se non piacerà  affatto ai cultori del liberismo in stile anglosassone.
Intanto, le notizie. La peggiore giornata di borsa da molto tempo a questa parte era attesa, ma non in questa misura. Piazza Affari ha perso il 5%, il doppio esatto di Francoforte, che pure poteva vantare dati economici assai migliori. Mentre intorno a quella cifra hanno ballato sia Parigi che Londra, con Wall Street che – al momento di scrivere – perdeva l’1,5. Segno che questa nuova ventata di crisi non dipende tanto, o solo, dalle politiche interne di questo o quel paese, ma da un sistema globale che è arrivato di nuovo al redde rationem tra dinamiche astratte della finanza e quantità  dure dell’economia reale. Il settore che più ha trascinato al ribasso le piazze europee sono state non a caso le banche: Unicredit e IntesaSanPaolo hanno lasciato sul terreno circa l’8%, appena meno la Popolare di Milano. Ma anche titoli industriali importanti come StMicroelectronics (-8,19%), Fiat (-6,41) e Tenaris (-5,54) hanno sentito per intero la botta.
Non è andata affatto meglio per i titoli di stato, e non solo per quelli italiani. Lo spread tra i Btp decennali e gli equivalenti Bund tedeschi ha superato di nuovo i 400 punti, quota lasciata in gennaio. Peggio hanno fatto i Bonos spagnoli (ora a 430), mentre anche per gli Oat francesi c’è stata una risalita, seppure a soli 125 punti. Dov’è finita la «fiducia ricreata» nella stabilità  del debito pubblico europeo? In realtà  sembra piuttosto essere finito l’effetto «salvataggio» garantito da due successive emissioni di credito all’1% da parte della Bce, che in soli tre mesi ha «iniettato» sui mercati oltre 1.000 miliardi di euro.
Cosa sta succedendo, dunque? I mitici «mercati» stanno prendendo atto che l’economia globale va male, con differenze nazionali anche sensibili ma nell’insieme in direzione negativa. Lunedì sera, a borse europee chiuse, il presidente della Federal Reserve statunitense – Ben Bernanke – ha spiegato che «la crisi non è finita», pur sapendo (o no?) di dare un dispiacere al pubblicitario ottimismo cinese di Mario Monti. E non poteva far altro, nel giorno in cui i dati sull’occupazione negli Usa mostravano un crescita pari alla metà  delle previsioni.
La Cina, che pure ha fatto registrare in marzo una crescita delle esportazioni (+8,9%) pari alla metà  di quella esistente 12 mesi prima, ha segnato comunque un surplus commerciale. Segno che quel paese importa anche meno di prima, potendo contare sulle proprie forze per tutte le merci base (che anzi esporta in tutto il mondo) e limitando l’import a energia, macchinari e beni di lusso. Della prima non può fare a meno, ma delle ultime…
Le poche notizie positive vengono dalla Germania, dove le imprese medio-grandi prevedono di fare nuove assunzioni per 80.000 unità  a breve termine, soprattutto ingegneri richiamati dal nuovo boom della produzione automobilistica (qualcosa che dovrebbe insegnare molto a Marchionne & co). Ma è il contraltare speculare della recessione europea, registrata anche dall’Ocse e dal Fondo monetario internazionale, accentuato da una moneta unica che a questo punto favorisce il più forte. Proprio il Fmi ha pubblicato un nuovo Outlook che punta il dito sul peso che l’indebitamento delle famiglie (e quindi il blocco dei consumi privati) sulle economie dei paesi avanzati. Famiglie schiacciate da debiti che si sono moltiplicati in pochi anni e che le hanno lasciate indifese davanti allo scoppio di diverse «bolle» (tra cui, soprattutto, quella immobliare).
Un quadro drammatico, al di là  delle cautele di linguaggio, anche perché «non esistono più beni che possono essere considerati davvero al sicuro». Tranne il vecchio oro, raddoppiato di prezzo in pochi mesi e da allora mai più ridisceso. Basti pensare che ieri la banca centrale svizzera ha collocato titoli a sei mesi con un rendimento negativo; ovvero, c’è chi, pur di tenere i soldi «tranquilli» è disposto a perderci qualcosa. 
Ma c’è un passaggio del documento che getta una luce sinistra sulle politiche di taglio alla spesa sociale in atto in tutta Europa: «i rischi connessi a un aumento dell’aspettativa di vita sono molto alti: se entro il 2050 la vita media dovesse aumentare di tre anni più delle stime attuali, aumenterebbero del 50% i già¡ elevati costi» dei sistemi di welfare. Quasi un suggerimento ai governi perché passino da politiche liberiste ad altre più tragiche, da Smith a Malthus. Tradotto: dobbiamo morire prima.


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