La guerra dei Tuareg incendia il deserto verso Timbuktu con l’aiuto di Al Qaeda

by Editore | 1 Aprile 2012 12:09

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La guerra del deserto è una guerra di movimento, dove chi si ferma è perduto. Nessuno lo sa meglio dei Tuareg, che il deserto lo abitano da millenni. E la battaglia che ieri ha investito Gao, 80 mila abitanti, la maggiore città  del nord del Mali, è stata una perfetta illustrazione di questo principio. Gao si estende nella sabbia sulla sponda orientale del Niger, lì dove il grande fiume, come fosse esausto e respinto dall’immensità  del deserto a settentrione, piega in una gigantesca ansa verso sud e prende la direzione che lo porterà  a morire, avvelenato dal petrolio, nel Golfo di Guinea. Proprio per questa sua natura di avamposto, di ultima città  degna del nome, oltre la quale c’è solo l’immensità  rovente del nulla, Gao ospita una nutrita guarnigione governativa, acquartierata in due grandi campi militari. E’ stato contro queste piazzeforti che sono andate a infrangersi le colonne motorizzate dei ribelli Tuareg, decine di gipponi 4×4 con la mitragliatrice pesante piazzata sul pianale, che si lanciano attraverso il deserto lasciandosi dietro un’alta nuvola di polvere. Sono penetrate facilmente nell’abitato, hanno scorrazzato per le strade di terra, con la gente che scappava a chiudersi in casa, hanno sparato e compiuto caroselli, hanno fatto sventolare la bandiera della repubblica sognata, l’Azawad, nella quale ai colori ricorrenti di tante bandiere in terra d’Islam il verde, il rosso, il nero – si aggiunge il giallo del deserto. Hanno gridato “Allah è grande” e stando ad alcune testimonianze hanno devastato due bar che vendevano birra, confermando in apparenza l’informazione secondo la quale insieme ai Tuareg, o nel loro mezzo, combattono miliziani islamici (il capo della rivolta del 1990-95, Iyad Ag Ghali, guida oggi un movimento legato alla maggiore organizzazione islamista della regione, “Al Qaeda nel Maghreb islamico”).

Ma le piazzeforti governative hanno resistito, e chiunque tentasse di avvicinarsi al loro perimetro è stato investito da un fortissimo fuoco di sbarramento.

Poi, da quello che hanno riferito per telefono i testimoni, due elicotteri da combattimento si sono alzati in volo. I ribelli avevano stabilito il comando in una grande stazione di servizio alle porte della città  e gli elicotteri l’hanno bersagliata con i razzi. A quel punto è venuto l’ordine della ritirata. Gao non è stata presa, anche se la battaglia ha messo in evidenza il suo isolamento; ma il giorno prima, venerdì, era caduta nelle mani dei ribelli Kidal, a nord-est di Gao e più vicina ai confini algerino e nigerino. I capi della rivolta lo avevano del resto annunciato all’indomani del colpo di Stato militare di dieci giorni fa: approfitteremo del caos a Bamako, la capitale, avevano dichiarato, per accelerare la nostra avanzata verso sud. E così hanno fatto. Il loro prossimo obiettivo è Timbuktu.

La giunta militare che il 21 scorso ha deposto il presidente Touré, accampando a motivo proprio lo scarso sostegno governativo alle operazioni militari contro la ribellione Tuareg, appare impotente non meno di lui.

I suoi capi, impegnati ieri a Ouagadougou in colloqui con il mediatore regionale, il presidente Burkinabe Compaoré, sembrano quasi avere fretta di restituire il potere di cui si sono sventatamente impadroniti. I Paesi circonvicini, riuniti nell’alleanza regionale Ecowas, promettono di mettere a disposizione una forza di pace di duemila soldati, sulla cui efficienza, però, c’è da fare poco affidamento.

Per il momento, la rivolta del “Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad” sembra avere campo libero. In meno di tre mesi ha già  fatto sfracelli. È esplosa in gennaio e tutti gli esperti ne individuano la causa scatenante nelle guerra civile libica e nel crollo del regime gheddafiano. Migliaia di Tuareg maliani si erano rifugiati in Libia alla fine degli anni 90, dopo l’esaurirsi della loro ultima rivolta.

Gheddafi aveva offerto loro protezione e se ne era assicurato in cambio la lealtà . Nella guerra civile hanno combattuto per lui e hanno perso. Armi in pugno hanno perciò abbandonato a Libia e attraverso il deserto algerino e nigerino, lungo le rotte che conoscono da secoli, sono tornati a sud, al di qua di quei confini che odiano e che, nomadi e alteri come sono, hanno sempre faticato a riconoscere. Fin dai primi assalti hanno avuto maggior fortuna delle disorganizzate e sparse unità  governative; ma l’effetto principale dei loro successi militari è stato un fiume di profughi che le organizzazioni umanitarie calcolano in circa 200 mila persone, riversatesi nel sud algerino, nell’ovest nigerino ed anche in Mauritania. Bocche da sfamare proprio nel momento in cui i Paesi del Sahel hanno lanciato un appello al mondo: una grande carestia sta per abbattersi su questa parte dell’Africa. Fame, guerra, fondamentalismo islamico: tale è la miscela esplosiva di cui la rivolta dei Tuareg è la miccia.

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