L’abito talare dei combattenti in difesa dell’assolutismo

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«Il clero? Frutto dell’albero cattivo, senza spirito soprannaturale, preoccupato solo di procurarsi il pane di ascendere a gradi superiori… È venuta la rivoluzione, provvidenziale. I due terzi dei seminaristi se ne sono andati immediatamente, sono rimasti i più stupidi, gli incapaci. Che cosa se ne può sperare?». Queste parole sono pronunciate nel 1938, e riguardavano le condizioni culturali del clero e dei seminaristi spagnoli, nel pieno della guerra civile. Migliaia di preti e seminaristi erano stati uccisi, in gran parte nell’estate 1936, per mano di milizie repubblicane. L’episcopato spagnolo denunciò tali eccidi con un documento collettivo, la lettera pastorale collettiva del luglio 1937, che santificava la «cruzada» del generale Franco e schierava la Chiesa spagnola dalla parte degli insorti, tentando di orientare in tal senso tutto il mondo cattolico. Chi pronunciava dunque queste parole? Non di un repubblicano anticlericale si tratta, né di un anarchico, ma di un cardinale che ben conosceva la società  spagnola e la Chiesa spagnola, monsignor Tedeschini, nei 15 anni precedenti nunzio apostolico in Spagna e che, tra le cause della guerra civile, pone al primo posto «l’ignoranza del clero».
Il documento, proveniente dall’Archivio segreto vaticano e pubblicato per la prima volta solo nel 2006, stride col fervore che ha accompagnato, negli ultimi anni di pontificato di Giavanni Paolo II, la beatificazione dei «martiri» della chiesa spagnola durante la guerra civile. Se le parole di Tedeschini mostrano la consapevolezza da parte delle autorità  ecclesiastiche di un determinato stato di cose del mondo cattolico spagnolo, identificato persino come una delle cause della guerra civile, la voce pubblica del papato e della chiesa fu da subito apologetica, verso gli insorti, la «cruzada» e i martiri, e tale lettura sarebbe rimasta immutata fino ad oggi, anzi sarebbe stata enfatizzata dal profluvio di beatificazioni degli ultimi anni. 
Come avvenne nella Chiesa e nel papato degli anni Trenta il passaggio da una visione critica, tutta interna alla Chiesa, ad una visione apologetica e rivolta all’esterno? E, più in generale, quale fu in Spagna il ruolo del mondo cattolico nella sua accezione più ampia, non solo quindi intellettuali e vescovi, ma preti e seminaristi, nei decenni che precedettero la guerra civile? E ancora: come spiegare l’insorgere delle violenze anticlericali nel mondo spagnolo, violenze di cui quelle del 1936-39 furono approdo e eclatante culmine? A tentare di offrire risposte a tali quesiti viene un lavoro collettivo che ha coinvolto nel corso degli ultimi anni diversi storici italiani e spagnoli e di cui ha tentato una sintesi, tramite convegni e seminari e, oggi, tramite una raccolta di saggi (Clero e guerre spagnole in età  contemporanea (1808-1939), a cura di Alfonso Botti, Rubbettino, 2011, pp. 462, euro 24.00) il gruppo di ispanisti che ruota attorno al semestrale «Spagna contemporanea» diretto da Alfonso Botti e Claudio Venza. L’oggetto di studio condiviso dai saggi è quello del comportamento del clero nelle differenti congiunture belliche degli ultimi due secoli in Spagna (la guerra d’indipendenza antinapoleonica, le guerre carliste, le guerre coloniali, la guerra civile), nonché l’analisi dei modelli di spiritualità  e di religiosità  in rapporto alla guerra. 
Il quadro che emerge è quello di una forte politicizzazione del clero, sempre parte in causa e sempre schierato, nelle guerre antinapoleoniche prima, a difesa dell’assolutismo e della causa carlista nei conflitti civili del XIX secolo contro i liberali, poi. Ma, parallelo a questo continuo schierarsi del clero, quel che emerge, dai saggi e dalla documentazione su cui si basano, è la scarsa preparazione culturale e pastorale di gran parte del clero, che ne aveva minato la possibilità  di essere vicina al mondo popolare urbano e operaio, da cui veniva anzi vissuto, non a torto, come avversario, nemico. Un clero politicizzato e combattente quindi, sempre a sostegno dell’assolutismo. La consapevolezza di tale stato di cose era venuta crescendo, tra le autorità  ecclesiastiche e tra i pochi esponenti spagnoli favorevoli ad un cattolicesimo sociale. Ma questa consapevolezza fu messa a tacere: come mette in evidenza Botti, questa vera e propria svolta interpretativa avrà  conseguenze duratura nel cristallizzare il giudizio sugli eventi e nell’annullare la critica (l’autocritica) di parte cattolica. Era cioè chiara agli occhi delle gerarchie ecclesiastica la responsabilità  del clero spagnolo nell’aver provocato gli scoppi di violenza anticlericale; ma nel momento della guerra civile, l’urgenza apologetica del momento fa effettuare una virata interpretativa e le violenze anticlericali, da conseguenze di errori e mancanze cattoliche, diventano certificazioni di virtù cristiane. Non solo non vennero criticati, ma cominciò una apologetica e una agiografia che avrebbe condotto alle beatificazioni di Giovanni Paolo II e del successore . 
La propaganda della cruzada aveva bisogno di esempi eroici, di martiri, e quindi quegli stessi preti e seminaristi che le autorità  avevano tacciato, nelle indagini interne, di essere responsabili dell’aver fatto della Chiesa un nemico di gran parte del popolo spagnolo diventavano portatori esemplari di «una ammirabile manifestazione di fede e di fortezza cristiana». La documentazione di parte ecclesiastica, disponibile grazie all’apertura dell’Archivio secreto vaticano e di cui da conto Botti nel suo saggio, conferma una linea interpretativa certo non nuova ma oggi suffragata da documentazione inedita, in gran parte ecclesiastica, che dipinge un clero in gran parte incolto e ottusamente schierato a difesa del privilegio sociale, oggetto di diffuso discredito popolare. Di fronte a tale documentazione, l’immagine che la Chiesa ancora oggi propone, quella cioè di una Chiesa vittima e martire del conflitto, risulta una vero e proprio esempio di «uso ecclesiastico della storia» da mettere finalmente in archivio.


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