L’americana picchiata eroina delle cinesi

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Dopo l’ennesima lite e l’aggressione, Kim Lee aveva deciso di non tacere. Se ne era andata alla polizia e poco dopo aveva riversato su Weibo (il Twitter cinese) la prima immagine di come il marito Li Yang avesse cercato di imporre, a suon di botte, le proprie ragioni. La dimensione pubblica della tragedia di Kim Lee ha reso la violenza domestica in Cina un tema di dibattito, non soltanto un falso segreto.
Il caso è senza precedenti. Lei, Kim, oggi 40 anni, era un’insegnante di Miami quando nel 1999 venne nella Repubblica Popolare per un progetto di ricerca sul bilinguismo. Lui, Li Yang, già  allora aveva lanciato un suo innovativo metodo di apprendimento dell’inglese in un Paese che aveva disperatamente bisogno di rompere una crosta di isolamento che vent’anni di riforme non avevano ancora smantellato. «Crazy English» funzionava e sembrava gratificare con energiche sferzate di orgoglio nazionalista le ambizioni di chi lo seguiva. Kim Lee e Li Yang si conobbero il primo giorno, ebbero la prima di tre figlie, si sposarono nel 2005 a Las Vegas e, soprattutto, lavorarono insieme, con la donna impegnata tra l’altro a preparare testi per i manuali del consorte. I pestaggi cominciarono con una discussione per motivi economici, altri seguirono, fino al fatale agosto 2011. Gli scatti postati sul web resero impossibile anche ai media governativi ignorare la vicenda. I dati della Federazione cinese delle donne sulla violenza domestica dicono che una su quattro l’ha subita mentre nelle campagne la percentuale si alza a due su tre. Un’atroce normalità , considerata accettabile grazie alla pratica di ascendenza confuciana che pretenderebbe le donne sottomesse e ubbidienti. Kim Lee ha trovato sostenitrici e detrattori. Il tema è scivoloso, scivolosissimo. Perché lei è un’americana e, per quanto viva nel suo Paese d’adozione da anni, resta una laowai, una straniera. Li Yang è invece un han che per i suoi corsi aveva coniato slogan tipo «Conquistare l’inglese per rendere più grande la Cina» e che, nel difendersi durante le settimane di maggiore esposizione mediatica, ha menzionato la legittimità  culturale del ricorso alla violenza in ambito familiare.
Come ha spiegato alla Associated Press Feng Yuan, che ha fondato un gruppo per contrastare il fenomeno, «vediamo la punta di un iceberg senza sapere davvero quanto l’iceberg sia grande». Kim Lee, di suo, ha dichiarato al China Daily in gennaio di non sentirsi «una eroina» e di pensare di scrivere un libro sul tema. «Negli Usa sai d’avere la legge dalla tua parte — aveva spiegato — mentre in Cina, anche se la donna alla fine parla, è tutto più difficile». Il marito si era difeso raccontando alla tv di Stato Cctv di essere depresso, di aver avuto genitori anaffettivi, di aver commesso soltanto un piccolo errore e di non essere stato «poi così crudele»: in fondo «l’ho picchiata 10 volte in tutto». Lei ha chiesto il divorzio a ottobre, in dicembre la prima udienza, ora si attende il verdetto. Non è uno scontro di civiltà , tra Occidente e Cina: fa molto più male.


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