«Mi avete preso per i fondelli ma l’errore è mio: i figli in politica»

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MILANO — «Mi avete preso per il culo. Ma la cazzata piu grande l’ho fatta io, tutta da solo: non avrei dovuto far entrare i ragazzi in politica». Nel giorno dell’amarezza più straziante, Umberto Bossi racconta a un amico la sua ultima serata da segretario federale della Lega. Un lungo, doloroso redde rationem con la famiglia: «Qualcuno me lo aveva anche detto: “Umberto, devi scegliere tra la Lega e i figli”. Lo sapevo anch’io, avrei dovuto scegliere la Lega. I figli potevano fare qualcosa d’altro». Nel pomeriggio di mercoledì, infatti, Bossi ha abbandonato via Bellerio mentre la segreteria politica del movimento era ancora in corso. Le evidenze di quello che non aveva mai voluto vedere gli sono state rivelate in un’epifania progressiva di fatti, circostanze ed eventi che fino a quel momento aveva sempre, letteralmente, ignorato. I macchinoni dei figli Renzo e Riccardo? Dei leasing. Gli appartamenti di Renzo? Normali affitti. D’altronde, un consigliere regionale guadagna mica male. Tutto poteva pensare Umberto Bossi nella sua vita di ventura, tranne che a far tremare dalle fondamenta la sua costruzione sarebbero stati i figli. La famiglia. C’è chi parla di responsabilità  oggettive: «Non passa per una volpe? E come mai non si è accorto di nulla?». Ma qui, appunto, a far scricchiolare l’edificio è stato il più insidioso dei cavalli di Troia. I figli. La famiglia. Strozza la gola il pensare che, ancora pochi mesi fa, nell’infuriare dello scontro tra «cerchio magico» e «barbari sognanti», il capo padano preso in contropiede dal conflitto sottovalutato dichiarasse che «Renzo è l’unico di cui mi fido». 
Tutto nasce nella notte nevosa tra il 10 e l’11 marzo 2004, quando il cuore di Umberto Bossi impazzisce. Manuela Marrone, la moglie, si ritrova a fare cupe riflessioni sul futuro: il marito è tra la vita e la morte, lei ha tre figli da crescere e la sua naturale diffidenza la porta a non fidarsi di nessuno. A partire da quei colonnelli che vede pronti a impadronirsi del movimento da lei stessa fondato vent’anni prima. Nelle primissime ore, c’è spazio soltanto per l’amica Rosi Mauro e per Luciano Bresciani, il cardiologo convertito da Bossi alla Padania, oggi assessore lombardo alla sanità . La prima decisione è subito presa: bisogna andarsene dall’ospedale di Varese. Nessuno deve parlare a nome suo, nessuno deve nemmeno essere in grado di fare scommesse sulla sua salute. Nella paranoia di quelle ore concitate, si teme addirittura che qualcuno possa approfittare della situazione per togliere Bossi di mezzo. E così il leader semicosciente si volatilizza nella notte in direzione della svizzera Sion con gran rabbia del governatore lombardo Roberto Formigoni. 
È più o meno in quei giorni che nasce il «cerchio magico», quel cordone che renda Bossi, paradosso tra i paradossi, sempre più inaccessibile. I suoi ordini vanno filtrati, le informazioni che riceve, selezionate. È lì che nasce il soprannome di Manuela Marrone, il «vero capo». Che trasmette i suoi ordini attraverso «la Nera», la «badante» Rosi Mauro. 
Ma quel che fa precipitare la situazione è l’ingresso sulla scena politica di Renzo. Ancora nel settembre 2009, Umberto Bossi racconta ai giornalisti dei figli, della sua preoccupazione che, per la loro giovinezza e inesperienza, possano essere utilizzati contro di lui e soprattutto contro la Lega: «Renzo deve andare via. Deve studiare all’estero. Voi non lo lascereste in pace». Che cosa poi accada non è dato sapere. Fatto sta che in gennaio, Renzo è candidato in Regione. La stretta su Bossi diventa, se possibile, ancora più severa. La realtà  deve essere ancora più filtrata. Perché il perno di tutto è proprio Renzo. Giuste le ipotesi dei magistrati, sono gli «amici» di Renzo, quelli che ogni giorno ne magnificano al padre le doti, a trarre i benefici economici dal sistema. Ma perché il gioco regga, il papà  non deve sapere. Meno contatti ha, meglio è. E così la maggior parte dei suoi appuntamenti pubblici scompare dalla Padania e dal web della Lega, i giornalisti vengono tenuti il più lontano possibile e lo stesso vale per i dirigenti del movimento. Bossi ama trascorrere le nottate libere al bar Bellevue di Laveno? Sul posto vengono organizzati turni di guardia. E se arrivano importuni, siano essi giornalisti oppure dirigenti che attendono da settimane di parlare con il «Capo», scatta l’allarme e arrivano i rinforzi per «proteggere» il leader. Il «cerchio» è chiuso.


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