Lo “shopping” del Dragone che mette paura

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In gergo si chiama «Go global», ed è la politica di «shopping» planetario avviata formalmente dal governo cinese nell’XI piano quinquennale. Dopo aver attratto capitali esteri per tanti anni, il Paese del Dragone si è a sua volta trasformato in investitore. La recente crisi finanziaria inoltre ha reso talvolta il lavoro più facile al regime di Pechino che opera principalmente attraverso il fondo sovrano China Investment Corporation (Cic). Viene creato nel 2007 per gestire le riserve in valuta straniera (3.200 miliardi di dollari), dopo la svalutazione del dollaro (la Cina detiene i due terzi del debito americano). Il sistema funziona. Nel 2009 12 mila investitori avevano avviato oltre 13 mila attività  in 177 paesi e i flussi di capitali in uscita hanno toccato 50 miliardi di dollari dagli appena 2 miliardi del 2000, l’anno dopo gli investimenti diretti (finanziari esclusi) ammontavano a 60 miliardi di dollari.
Negli Stati Uniti il Cic controlla quote in 60 aziende per un totale di 9,6 miliardi di dollari. Ci sono un’ampia gamma di «blue chip», Citigroup, Visa, Pfizer, Coca Cola ed Apple, ma c’è anche il private equity Blackstone. Sempre maggiore l’interesse per i settori difesa, aerospaziale, trasporti e tlc, che ha creato non pochi timori a
Washington sulla sicurezza nazionale. Per quanto riguarda materie prime ed energia la Cina è impegnata in un «Risiko» planetario con quote nella canadese Teck Resources, o nel gigante brasiliano dei metalli Vale. In Kazakistan, Turkmenistan e Uzbekistan la China National Petrol Company ha siglato accordi per lo sfruttamento di giacimenti di petrolio e gas naturale e per la distribuzione, in Afghanistan punta sul rame, in Mongolia e Australia sul carbone.
Capitolo a parte merita l’Africa: la veloce penetrazione cinese ha permesso a Pechino di diventare interlocutore privilegiato dapprima di Sudan, Angola, Nigeria, e Sud Africa e via via di altri Paesi. Secondo Standard Bank gli investimenti cinesi in Africa sono destinati ad aumentare di circa il 60% a 50 miliardi di dollari entro il 2015 grazie ai tentativi di acquisizione di società  come Aluminium Corp of China e China National Petroleum di giacimenti minerari contribuendo a far aumentare il Pil del continente di circa il 6%. Sul versante europeo spiccano alcuni casi di penetrazione (agevolati dalla crisi), come quello greco, dove nel 2010 è stato siglato un’intesa multimiliardaria di 14 accordi per realizzazione di progetti nei settori portuale, trasporti, turistico e di condivisione di knowhow. E così il gigante Cosco ha acquisito il controllo completo del principale porto di navi container del Pireo.
E l’Italia? Il nostro paese rimane ancora una destinazione marginale nelle strategie cinesi, assorbendo lo 0,008% delle risorse investite da Pechino all’estero. Ma le iniziative d’investimento sono in forte crescita, con oltre 70 società  a partecipazione cinese presenti alla fine del 2010. Nel 2007 erano meno di 30. Povera di risorse naturali, l’Italia è un «target» del Dragone per la sua posizione geografica che facilita la diffusione dei prodotti cinesi nel resto del continente. Lo dimostra l’interesse manifestato per alcuni scali portuali da parte dei cinesi. Tra i protagonisti del «Go Global» in Italia ci sono grandi gruppi, anche a controllo pubblico: Cosco e China Ocean Shipping Company nella logistica, ad Haier negli elettrodomestici, a Huawei nelle telecomunicazioni e ICT, Anhui Jianghuai Automobile a Chang An Automobile Group nel comparto auto con centri di ricerca e sviluppo a Torino.
A far gola infatti sono i cosiddetti beni immateriali ad alto valore brevetti, immagine marchi, innovazione, che possono far crescere rapidamente e affermarsi sui mercati occidentali le imprese cinesi. Ne è una dimostrazione l’acquisizione di Benelli da parte della cinese Qianjiang Group o della Elios Spa da parte di Fedia Electrics. Con il tecnogoverno Monti potrebbero venir meno quegli ostacoli che frenano il Dragone come la burocrazia macchinosa e la lentezza della legge. Ma l’ombra cinese è anche temuta, non sono pochi infatti i rapporti interni che parlano di «rischio di indebolimento del patrimonio scientifico e tecnologico nazionale» e di« vulnerabilità » dovuta alla penetrazione in settori chiave della nostra economia.


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