Metropolis. Costruttori di città  verticali

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Altro che auto elettriche, monorotaie, marciapiedi mobili, macchine guidate direttamente dal computer. Per muoversi, nelle città  del futuro, servirà  soprattutto l’ascensore. L’ultimo grido, in materia di geografia urbana, infatti, non è la distesa di bucoliche villette, ma una selva di grattacieli, possibilmente a un tiro di schioppo dall’aeroporto. Parola d’ordine: densità . Secondo Greg Lindsay e John Kasarda, autori di Aerotropolis, una città  fittamente popolata è la risposta più efficiente non solo all’esigenza di tagliare drasticamente il traffico automobilistico e il suo inquinamento, ma anche allo sforzo di risparmiare energia, economizzare le risorse, sfruttare al massimo i risultati della rivoluzione informatica.
Il prototipo di questa città  del futuro è già  in costruzione. Aprirà  i battenti fra tre anni, nel 2015, in un angolo della Corea, non lontano da Seul. Si chiama Songdo, e i suoi grattacieli si alzeranno su un’isola artificiale, creata in mare su terra di riporto. Avrà  65mila abitanti, che sceglieranno di muoversi per lo più a piedi, dato che saranno stretti dentro poco più di sei chilometri quadrati, per una densità  di diecimila abitanti per chilometro quadrato. Consumerà  il 30 per cento in meno dell’acqua che utilizza una città  delle stesse dimensioni, grazie al riciclaggio dell’acqua potabile e degli scarichi non fognari. Emetterà  un terzo dell’anidride carbonica di una struttura urbana analoga, con un uso sistematico dell’energia solare. E produrrà  il 75 per cento in meno di rifiuti, perché saranno riutilizzati e bruciati per riscaldare gli edifici. Negli appartamenti e negli uffici, il sistema Telepresence della Cisco consentirà  non solo un uso sistematico della videoconferenza per qualsiasi comunicazione, ma anche di accendere e spegnere, a distanza, qualsiasi apparato, dalla lavatrice, alla stampante, al tostapane.
Almeno in teoria, la città  verticale potrebbe anche cercare di sostenere se stessa, producendo una buona quota del cibo di cui ha bisogno. Dickson Despommiers, ecologo alla Columbia University di New York, sostiene da tempo che il vero talismano del cibo a chilometro zero è la fattoria verticale, dentro un grattacielo, con coltivazioni in serra e anche allevamenti di polli e maiali al chiuso. Secondo i suoi calcoli, un palazzo di trenta piani, ognuno 100 metri per 100, può alimentare diecimila persone. A Songdo, dunque, ne basterebbero sei: con temperatura, meteo e il resto sotto controllo, sostiene Despommiers, un metro quadro coltivato nel grattacielo produce quanto 10-20 metri quadri all’aperto.
L’agricoltura verticale per ora non è prevista, ma comunque per Songdo prototipo è la parola giusta. Se l’esperienza sarà  positiva, l’idea è di esportare il modello così com’è. Songdo è, infatti, una sorta di città  “chiavi in mano”, progettata e costruita tutta insieme, da zero fino ai particolari più minuti, da Stan Gale e dagli architetti della Kohn, Pedersen e Fox di New York. I grattacieli coreani sono, insomma, una sorta di vetrina di un’impresa per attirare altri costruttori di città , convincendoli a replicare Songdo. Potranno risparmiare, perché sfruttare l’esperienza compiuta nel mare coreano, consentirà  delle economie di scala, ma il conto che Gale e soci presenteranno alla fine, sarà  comunque salato: una città  come Songdo costa fra i 30 e i 60 miliardi di dollari. Può sembrare molto, ma i compratori possibili non mancano. Primo fra tutti, il governo cinese che si prepara ad avviare la costruzione di venti città , per assorbire l’emigrazione dalle campagne verso le fabbriche della costa.
Pur con tutto lo sfolgorio di tecnologia di Gale e della Kpf, i grattacieli di Songdo guardati dai portici di Cremona o dalla piazza di Ascoli Piceno non fanno molta invidia. Per chi, come l’Italia, la città  moderna l’ha praticamente inventata, il futuro possibile tuttavia offre ugualmente uno scenario nuovo e più vivibile. Il traffico, anzitutto. In attesa dei primi bilanci sul blocco del centro di Milano, l’esperienza estera dice che razionare l’ingresso delle auto in centro funziona. A Stoccolma, dove da cinque anni per entrare in centro si paga da uno a tre euro (sette nelle ore di punta), la circolazione delle macchine è diminuita del 25 per cento e le emissioni di Co2 del 40. Poi, le case. Da quattro anni, in un sobborgo di Madrid, l’Ecobox della Fundacià³n Metropoli mostra che con i pannelli termosolari sul tetto ad assicurare riscaldamento e raffreddamento e quelli fotovoltaici sui muri per garantire l’energia, l’edificio autosostenibile non è un’utopia. Ancora, le strade. Le lunghe fila di lampioni perennemente accesi hanno forse fatto il loro tempo. Con chip e sensori, dice Carlo Ratti, del Senseable City Lab al Mit di Boston, la luce potrebbe accompagnarci nella nostra camminata notturna, accendendo e spegnendo i lampioni al nostro passaggio. Soprattutto, il rapporto con la città  stessa. Uno studio della Rockefeller Foundation elenca cinque tecnologie cruciali nella città  del nuovo secolo. La base sono la banda larga mobile e i telefonini o i tablet con cui attivare, ad esempio, sistemi di crowdsourcing pubblico, come il SeeClickFix che dalla prima esperienza di New Haven si è esteso ai quattro angoli degli Stati Uniti, da San Francisco a Washington a Tucson: vedi una buca per strada, un albero spezzato o un cumulo di spazzatura, lo fotografi sul telefonino e invii la foto che apparirà  sui terminali dei servizi del Comune, dai vigili alla nettezza urbana alla manutenzione strade. Le altre due indicazioni riguardano i servizi pubblici e il comune passante. Seguendo l’esperienza lanciata due anni fa dal G-cloud inglese, le autorità  locali possono risparmiare un bel po’ di soldi standardizzando e condividendo software e applicazioni per i loro apparati informatici. Quanto al passante, se Internet è ormai il filo conduttore della nostra vita quotidiana, gli Internet café sono obsoleti: uno schermo sul muro, una tastiera e la Rete è su strada, a disposizione di tutti.
Basta però il riferimento ai mucchi di spazzatura per capire che il futuro possibile delle città  non è necessariamente il futuro probabile. Viste in una prospettiva globale, Songdo o la nuova Cremona sono fenomeni marginali. Oggi, il 50 per cento della popolazione mondiale vive nelle città . Nel 2050 sarà  forse l’80 per cento. Questo fiume che dalle campagne si riversa in città  scorre soprattutto in Asia, in Africa, in America latina. E non finisce nei grattacieli, ma nelle bidonvilles, nei quartieri abusivi. Già  oggi un miliardo di persone vivono nelle baraccopoli. Nel 2050 saranno tre miliardi. In termini quantitativi sono loro i grandi costruttori di città  di questi decenni. Fogne a cielo aperto, niente acqua corrente, elettricità  rubata alle linee di trasmissione cittadine, baracche accatastate una sull’altra. Negli slum, la parola d’ordine della densità  non viene declinata allo stesso modo di Lindsay e Kasarda. Questa città  del futuro è un dedalo caotico di viuzze, dove si svolge un’attività  economica vibrante, sia di produzione che di commercio, quasi sempre all’aperto, dove praticamente tutto viene riciclato e il senso comunitario è spesso fortissimo. È un’immagine che dovremmo riconoscere. Robert Neuwirth, che alle bidonville ha dedicato un libro, Città  ombra. Viaggio nelle periferie del mondo, le definisce «le città  medievali del Ventunesimo secolo».


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