Parabole degli studi sul futuro

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Scaturito dall’osservazione diretta, rivelava la riproduzione sessuale delle piante e rispettava il percorso naturale ma provocò nel suo creatore angosce religiose profonde tanto da fargli dire che la nuova varietà  era un incrocio “accidentale” (Andrea Wulf, “La confraternita dei giardinieri”, 2011). Ne è passata di acqua sotto i ponti. Le immagini del futuro che appaiono sui mass media mostrano prodigi tecnologici ben più raffinati, invenzioni strabilianti del genio umano che dovrebbero affrancarci da fatica, malattia e povertà . Ipotesi date per certe: «Così vivremo tra 50 anni». Il controllo del clima è assicurato, andremo su Marte, comandi vocali apriranno per noi gli sportelli della cucina, protesi sofisticate ci potenzieranno, le malattie saranno sconfitte, la nostra vita durerà  oltre i cento anni e, forse, non moriremo mai. E tutto questo grazie a biotecnologie, robotica, geoingegneria e simili. Negli articoli è raro trovare domande sugli effetti che queste potenti tecnologie possono provocare, su chi sarà  in grado di usarle e soprattutto se tanta tecnica abbia un senso. In questi scenari fantascientifici i problemi sociali scompaiono miracolosamente e viene ignorata l’umanità  che non ha nessuna intenzione di vivere in una “seconda creazione” che ha il suo demiurgo nel biologo-imprenditore Craig Venter. Parabola degli studi sul futuro. Quarant’anni fa il Club di Roma delineava uno scenario mondiale drammatico a causa del rapporto squilibrato tra popolazione, produzione industriale e risorse naturali, previsioni confermate dalle ricerche seguenti e aggravate da crisi sempre più estese: cambiamento del clima, enorme perdita di varietà  delle specie, divario stratosferico tra ricchi e poveri. In questi anni difficili anche la finanza non ci da tregua ma si perde tempo a celebrare il frigo che parla o il tatuaggio che risponde vibrando ai segnali di un cellulare. Il dialogo con la macchina eccita più delle enormi potenzialità  della nostra mente mentre invenzioni semplici, ma non per questo meno sofisticate, che possono facilitare e migliorare davvero la nostra vita quotidiana e quella di milioni di poveri non emozionano quanto l’auto che si guida da sola o l’umano mutante, un po’ cyborg e un po’ chimera. Invenzioni geniali che favoriscono il riequilibrio sociale e ambientale sono trattate come fenomeni di nicchia o volontariato di anime belle. Ma la passione per il mondo artificiale non è un sentire universale, è piuttosto una distorsione della percezione, sedimento della vecchia cultura patriarcale che non ama la vita e non ha soluzioni per i problemi che ha provocato. Il futuro tecnologico che tanto piace all’umanità  che preferisce i laboratori all’aria aperta e già  si adatta a un ambiente desertico senza provare a rinaturarlo, non è l’innovazione adatta per il Terzo Millennio ma l’ultima fase di una civiltà  che continua il suo malpasso incapace di percepire le complesse relazioni della natura e le dinamiche più profonde dell’esistenza umana. Fa parte dunque del problema e non della soluzione.


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  LE PAROLE sono fondamentali nel linguaggio del dolore, e lo sono ancor di più quando questo dolore è una diagnosi di cancro, un trauma profondissimo che tocca oltre mille persone ogni giorno nel nostro Paese. È prezioso quindi il dibattito semantico sollevato dal National Cancer Institute e ripreso ieri da Repubblica.

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