Sangue, caos organizzato e siluri Tutti contro il piano di Kofi Annan

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Presenti, fra gli altri, il segretario di stato Hillary Clinton, il ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu e gli immancabili rappresentanti di Qatar e Arabia saudita. «In agenda – ha ricordato il quotidiano arabo edito a Londra – c’erano il sostegno al piano dell’inviato internazionale Kofi Annan di pacificazione della Siria e le misure che dovranno essere adottare in caso di un fallimento dell’iniziativa». Ben pochi però lavorano per il successo di Annan. «Le possibilità  (di Annan, ndr) sono limitate perché tante parti desiderano il suo fallimento – ha notato al Quds al Arabi – sia siriane, il regime e le opposizioni, che straniere, come Usa, Francia e Gran Bretagna». E chi sgancia siluri contro l’inviato dell’Onu, lo fa «perché il successo di Annan prevede un riconoscimento del regime di Bashar Assad e il suo coinvolgimento in ipotetici negoziati sulle riforme democratiche».
A queste parti, siriane e straniere, va aggiunto anche il Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, che continua a denunciare con forza le (evidenti) violazioni del cessate il fuoco (in vigore dal 12 aprile) da parte dell’esercito siriano, ma si astiene dal condannare le azioni di disertori e ribelli che fanno capo all’Esercito libero siriano (Els) che combatte il regime. Ban Ki-moon guarda solo da una parte, eppure la cronaca quotidiana racconta, sia pure attraverso fonti non indipendenti, di una sanguinosa guerra civile in atto. Con spargimenti di sangue da una parte e dall’altra. Ieri, ad esempio, ai circa 40 civili e insorti armati uccisi secondo le opposizioni dalle forze armate, si sono aggiunti 18 soldati lealisti morti (fonte tv statale), dieci dei quali in un attentato a Sahm al Jolan. Inoltre gli attacchi dei ribelli, secondo dati diffusi ieri da Damasco, nell’ultimo anno avrebbero messo fuori uso 17 oleodotti (altri 13 sono stati perforati e sabotati) causando il blocco della produzione di circa 180mila barili di greggio al giorno, oltre alla morte di 23 persone. 
Si tende a nascondere inoltre che l’opposizione siriana all’interno del paese è contraria a un attacco militare internazionale per far cadere Bashar Assad (e per cambiare la collocazione regionale della Siria) e invece è favorevole ad una via d’uscita politica alla crisi. Ieri il Fronte popolare per il cambiamento e la liberazione, una delle organizzazioni che lotta contro il regime, ha annunciato che presenterà  una propria lista di candidati alle elezioni parlamentari del 7 maggio (che il Parlamento però ha chiesto di rinviare). Ma tanti, troppi, fuori e dentro il paese, continuano a soffiare sul fuoco della guerra civile (anche il regime che crede di poterla vincere), spingendo la Siria verso il baratro.
In questo quadro di sangue e caos (organizzato), i turchi sembrano essere quelli che hanno le idee più chiare sulle ragioni della crisi siriana e sugli sviluppi a lungo termine nel Medio Oriente. Lo scontro vero, dicono ad Ankara, è tra musulmani sunniti e sciiti. «Lo spaccatura tra sunniti e sciiti determinerà  i rapporti di forza nella regione nel XXI secolo – ha scritto Ibrahim Karagul ieri su Yeni Safak, giornale vicino al governo islamista di Erdogan – qualsiasi sviluppo sarà  fondato su quella spaccatura che influenzerà  le scelte anche di parti non mediorientali sui regimi che dovranno cadere. La crisi siriana darà  un colpo di acceleratore alla divisione tra sunniti e sciiti». Allora, ci spinge a domandarci Karagul, la guerra civile siriana si sta combattendo davvero per diritti e democrazia?


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