Sasà , contro il nazifascismo e poi le bugie

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Rosario Bentivegna è stato molte cose. Giovane universitario antifascista arrestato nel 1941 dalla polizia del regime, comandante dei Gruppi d’azione patriottica “Carlo Pisacane” del Pci nella Roma occupata dai nazifascisti, commissario politico delle Brigate Garibaldi in Montenegro durante la Resistenza in Jugoslavia, medaglia d’argento al valor militare per la guerra partigiana, medico del lavoro impegnato per quarant’anni nelle lotte contro le nocività  e per la salute dei lavoratori. 
Il suo nome figurò anche nella lista dei 731 “enucleandi” (tutti dirigenti, quadri, militanti e sindacalisti comunisti e socialisti) che sarebbero stati arrestati e deportati nella base di Gladio a Capo Marrargiu in Sardegna in caso di realizzazione del “golpe De Lorenzo” nel 1964. 
Per tutta la vita però Rosario Bentivegna è stato inchiodato a via Rasella, dovendo far fronte alle calunnie, agli attacchi ed alla costante riproposizione di falsi storici di ogni tipo smentiti dalle sentenze dei tribunali, che hanno cronologicamente condannato i vari Montanelli, Feltri e Belpietro, dagli studi storici più seri ma soprattutto dai fatti.
L’Osservatore Romano il giorno dopo la strage delle Fosse Ardeatine chiamò «martiri» i 335 trucidati dai nazifascisti, «vittime» i 33 soldati tedeschi del battaglione Bozen e «colpevoli sfuggiti all’arresto» i partigiani dei Gap autori dell’attacco. 
Da allora e fino ad oggi la produzione di falsi, leggende, e polemiche su via Rasella non ha avuto praticamente sosta. I mai esistiti manifesti tedeschi, la cui inesistenza fu confermata da Kappler e Kesselring in persona durante i processi negli anni quaranta, che avrebbero invitato i partigiani a consegnarsi per evitare il massacro delle Ardeatine; i paragoni strabici con la vicenda del carabiniere Salvo D’Acquisto, che non si presentò ai tedeschi ma si immolò eroicamente ai carnefici quando con altri innocenti civili era stato già  catturato; la vergognosa calunnia di aver voluto “provocare” gli occupanti per fargli compiere una strage che avrebbe “destato” Roma dal torpore attendista; finanche la leggenda metropolitana, smentita dai tutti i principali dirigenti del gruppo a cominciare da Orfeo Mucci, di aver voluto far colpire dai nazisti altri partigiani di Bandiera Rossa, riunitisi in un incontro clandestino proprio nei pressi di via Rasella, per liquidare dei rivali a sinistra. 
Forse, come ricordava spesso Bentivegna, l’obiezione meno ridicola, cioè che non si nasconde dietro falsi miti, senso comune e bugie, formulata contro via Rasella è quella della sua supposta inutilità , data dal fatto che di lì a poco sarebbero giunti a Roma gli Alleati liberando da soli la città  senza spargimenti di sangue.
Questo nodo rappresenta ancora oggi il fulcro non solo dell’attacco di via Rasella ma dell’intera vicenda della Resistenza italiana ed europea.
All’obiezione dell’inutilità  dell’azione è quantomai necessario rispondere con due domande: la lotta di Liberazione andava fatta oppure no? Le forze democratiche del Comitato di liberazione nazionale dovevano piegarsi al ricatto delle rappresaglie e rispettare l’ordine pubblico e militare delle truppe naziste mentre queste davano luogo, soltanto a Roma, ai rastrellamenti del Ghetto e del Quadraro, alle torture di via Tasso o alle fucilazioni degli antifascisti a Forte Bravetta? 
Questa è e rimane la «questione» che interroga direttamente non tanto i tribunali quanto la coscienza pubblica del nostro paese. E se si contesta la legittimità  di via Rasella non si attacca un uomo o un partito politico ma si disconosce uno di quei luoghi in cui Piero Calamandrei invitava i giovani ad «andare in pellegrinaggio per vedere i luoghi dove è nata la nostra Costituzione». 
Bentivegna non ha mai amato essere definito un eroe, ha sempre rifuggito quella retorica celebrativa con la quale a suo giudizio la Resistenza veniva cristallizzata come un monumento «di quelli che poi si dimenticano». Ha sempre preferito raccontare la lotta di Liberazione nella sua dimensione umana, i tormenti, le sofferenze, i drammi interiori e i dubbi, ma anche gli entusiasmi giovanili e le ingenuità  di quelle donne e quegli uomini che, come lui, avevano fatto la scelta dolorosa e carica dell’etica della responsabilità  di impugnare le armi nella lotta al fascismo internazionale. 
Nel suo ultimo libro Senza fare di necessità  virtù (Einaudi) Bentivegna ha rivendicato una volta di più la giustezza della scelta della lotta armata contro il nazifascismo, assumendosi in prima persona, senza nascondersi dietro l’obbligo dell’esecuzione dell’ordine superiore, la responsabilità  delle azioni armate contro gli occupanti tedeschi ed i collaborazionisti fascisti. 
«Io a Via Rasella ci sono stato perché ci volevo stare», scrisse Bentivegna in una lettera a Giorgio Amendola e Antonello Trombadori, «ci sono sempre rimasto e ci sono ancora». 
Questo il testamento civile di un uomo che aveva «scelto di essere un comunista e un combattente nel 1938 perché voleva la pace e la giustizia sociale, perché voleva essere libero e vivere nella democrazia».
*storico – Fondazione Lelio Basso


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