Separare le Tv dalle Reti e il Mercato sarà  Aperto

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Una patatona con un nucleo a mille gradi Fahrenheit che, data la scadenza dell’attuale consiglio Agcom a metà  maggio, ricadrà  sulle scrivanie del successivo. 
Le decisioni prese dal governo sono difficilmente contestabili: il primo obiettivo è valorizzare una risorsa pubblica, l’etere, in un momento in cui tutto il Paese è chiamato a compiere sacrifici e un regalo come il beauty contest non è comprensibile. Il secondo è usare le nuove frequenze per aumentare il pluralismo, la trasparenza e l’apertura del mercato. Dando così una risposta convincente alla procedura d’infrazione della Commissione europea, finalizzata proprio a colpire il prolungarsi del predominio Mediaset-Rai nell’era digitale. Il terzo obiettivo è promuovere la modernizzazione delle telecomunicazioni, in linea con l’Agenda digitale europea.
Queste grandi linee dovranno trovare applicazione nelle regole di gara che la «nuova Agcom» saprà , potrà  e vorrà  scrivere. Per evitare, ad esempio, che si ripeta quanto accadde con il disciplinare di gara del beauty contest concepito dall’ex ministro Paolo Romani, che assegnava a Mediaset (soprattutto) e a Rai le frequenze migliori. Ma proprio qui si annidano le maggiori difficoltà  di applicazione. Nel documento del governo si dice che la partecipazione alla gara sarà  riservata agli operatori di rete, «assicurando la separazione verticale tra i fornitori di programmi e gli stessi operatori di rete», che dovranno consentire l’accesso ai fornitori di programmi «a condizioni eque e non discriminatorie».
Il guaio è che, anche in questo campo, l’Italia è «diversa». Mentre in altri Paesi europei ci sono aziende che si occupano solo di gestire le reti (l’Inghilterra ha Arqiva, la Francia Tdf, la Spagna Abertis, per fare solo tre esempi), in Italia le televisioni posseggono sia le infrastrutture che i programmi: Fininvest controlla l’azienda maggiore (Elettronica Industriale, che ha appena inglobato Dmt) e Rai possiede RaiWay. Per non dire di Telecom Italia e di altri. Sono tutti «integrati verticalmente». Alla luce di questa «diversità », come si applica l’indicazione del governo? Disintegrarli è difficile. Una risposta «permissiva» sarebbe quella di farli partecipare tutti alla gara, così come sono. Però in questo modo non si assicurerebbe quella separazione verticale che si vuole. Una risposta rigorosa sarebbe al contrario limitare la gara agli operatori di rete «puri», cioè agli stranieri, ma è una strada difficile persino da immaginare. Perché presupporrebbe che sia Fininvest che Rai venissero forzati alla separazione proprietaria, cioè a vendere in tutto o in parte la società  che gestisce le infrastrutture.
Una strada intermedia e ragionevole potrebbe essere quella di fare come nelle telecomunicazioni, prima in Inghilterra (con Open Reach) e poi in Italia (con Open Access), dove si è creata una separazione soltanto societaria (non di proprietà ), per forzare l’ex monopolista ad affittare la propria rete a tutti i concorrenti a condizioni uguali, senza privilegiare, con trucchi o trucchetti, la propria «casa madre». Conclusione: la nuova Agcom si ritroverà  in mano una pratica davvero complicata, ma avrà  anche la chance di dimostrare che l’aggettivo «nuova» non è usurpato. E, se le cose andranno bene, com’è augurabile e possibile, il Paese avrà  un sistema televisivo più equilibrato e moderno. Dove aziende ricche di risorse straordinarie come sono Rai e Mediaset potranno dare il massimo.


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