Soldi ai gruppi, sgravi e fondi ai giornali Oltre ai rimborsi 220 milioni all’anno

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ROMA — Se non ora, quando? Quando si metterà  fine a quel sistema indecente per cui un privato cittadino che finanzia un partito può beneficiare di uno sgravio fiscale 51 volte più favorevole rispetto a chi versa un contributo alla ricerca sulla leucemia infantile? Sono anni che la domanda «se non ora, quando?» risuona in Parlamento: senza risposta. Sono state presentate diverse proposte di legge per chiudere quello sconcio, senza che per nessuna di loro si sia aperto uno spiraglio. Ne ricordiamo in particolare una che ha più di quattro anni, firmata dall’attuale sindaco di Roma Gianni Alemanno e dal capo dell’Italia dei valori, Antonio Di Pietro: mirava a mettere almeno sullo stesso piano le erogazioni liberali alla politica con quelle alle associazioni benefiche. Mai messa all’ordine del giorno, nonostante l’autorevolezza dei proponenti. Destino analogo a quello di un disegno di legge del dipietrista Antonio Borghesi, presentata a giugno del 2008. Così oggi chi dà  100 mila euro a un partito può continuare a risparmiarne 19 mila, visto che la detrazione del 19% è ammessa fino a un tetto di 103 mila euro, mentre chi dona la stessa cifra alla ricerca sulla distrofia muscolare ha uno sconto massimo di 392 euro: perché in questo caso il tetto della detrazione è di 2.065 euro. 
Ma se pensate di scorgere un rossore sulle guance dei politici che non hanno voluto cambiare finora questo stato di cose, vi sbagliate. Perché c’è perfino chi pensa che gli sgravi fiscali astronomici per i partiti siano insufficienti. Il deputato Daniele Galli e il suo collega Giancarlo Lehner, entrambi eletti con il Pdl e passati il primo al Fli e il secondo ai Responsabili hanno depositato il 13 febbraio una proposta di legge per ridurre, sì, i rimborsi elettorali, ma contemporaneamente innalzando dal 19 al 70 (settanta!) per cento la detrazione fiscale per i finanziamenti privati alla politica e portando il tetto per ottenere quel beneficio da 103 mila a 200 mila euro. Disegno di legge il cui esame è già  iniziato insieme ad altri, con incredibile solerzia, alla commissione Affari costituzionali della Camera. Traduzione: mentre oggi chi versa 200 mila euro a un partito può risparmiare al massimo 19.570 euro, se passasse questa proposta potrebbe caricarne sulle spalle dei contribuenti 140 mila. 
Ecco il clima in cui sta iniziando, con imperdonabile ritardo, la discussione sulla trasparenza dei bilanci delle formazioni politiche e sui grassi contributi pubblici che queste ottengono. Sorvoliamo su un particolare: il referendum del 1993 con il quale 34 milioni 598.906 italiani bocciarono la legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Quasi il triplo dei 12,7 milioni di cittadini che nel 1946 votarono per la Repubblica. Sorvoliamo, anche se non si dovrebbe. Quel voto referendario di vent’anni fa fu la prevedibile conseguenza di una situazione profondamente degenerata. Le inchieste di Mani Pulite avevano squarciato il velo su una corruzione diffusa che stava corrodendo il sistema politico. E la risposta del Paese non poteva che essere categorica: basta soldi ai partiti. 
A distanza di vent’anni, se dobbiamo prendere per buone non le risultanze delle inchieste dei magistrati ma le denunce della Corte dei Conti, da ultima quella del suo nuovo presidente Luigi Giampaolino secondo il quale oggi il cancro della corruzione è più esteso di allora, c’è il rischio che la situazione sia perfino peggiore. Al punto da far apparire grottesca la giustificazione inconfessabile con la quale i partiti hanno fatto saltare due anni fa, riducendolo a un misero 10%, il taglio del 50% dei rimborsi elettorali proposto dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Circolava la tesi, in Parlamento, che una riduzione eccessiva dei fondi pubblici avrebbe rilanciato la corruzione: pensate!
Ma dopo aver sorvolato su quel referendum del 1993 non vorremmo assistere a qualche sgradevole sorpresa, e cioè che invece di ridurre un conto già  salatissimo, si facesse semplicemente sparire la fattura. Magari spostandola dalla luce dei riflettori, oggi tutti concentrati a illuminare i «rimborsi elettorali», la definizione ipocrita che ha assunto dal 1993 continuando così a sopravvivere il famoso finanziamento pubblico, ad altre voci. Tipo detrazioni fiscali maggiorate, per intenderci.
Perché i rivoli di denaro dei contribuenti che affluiscono nelle casse dei partiti sono molteplici. Uno di questi è rappresentato, appunto, dagli sgravi fiscali per i contribuiti privati. Quanti soldi sono, nessuno, tranne l’Agenzia delle Entrate, è in grado di dirlo. Con una leggina approvata all’inizio del 2006 è stato infatti portato da 2.500 euro alla rispettabile cifra di 50 mila euro il tetto al di sotto del quale una «erogazione liberale» a un politico o alla sua formazione può tranquillamente restare anonima. Di conseguenza anche la stima che si può fare sui versamenti denunciati ufficialmente alla Camera rischia di essere notevolmente inattendibile. Da questi risulta che nel 2010 privati cittadini e aziende hanno versato ai partiti circa 49 milioni di euro: il che significa un costo per il Fisco di almeno 9 milioni. Ma è inutile dire che potrebbe essere anche molto di più.
Fra quei contributi ci sono anche quelli dei parlamentari. Molti deputati e senatori girano ai partiti una parte dei loro emolumenti: su queste cifre hanno diritto anche loro al famoso sgravio del 19% fino al limite di 103 mila euro annui. Alcuni però attingono non dall’indennità , bensì dal fondo per il collaboratore parlamentare. Al partito vanno quindi soldi pubblici che sarebbero destinati a retribuire il cosiddetto portaborse, sui quali per giunta è possibile applicare una detrazione del 19% nonostante siano esentasse. Impossibile calcolare che cosa significhi questo per le casse di tutte le formazioni politiche. 
Molto più facile, invece, stimare l’impatto di altre voci. I contributi ai gruppi parlamentari di Camera e Senato non sono altro che un finanziamento pubblico supplementare ai partiti: circa 75 milioni l’anno. Idem vale per i contributi ai gruppi consiliari delle 20 Regioni italiane, il cui totale non è inferiore a quello del Parlamento. In tutto, dunque, alla politica vanno altri 150 milioni pubblici l’anno attraverso le assemblee legislative. 
Bisogna poi considerare i finanziamenti ai giornali di partito: una cinquantina di milioni l’anno. Se sommiamo tutte queste voci si può calcolare che ai rimborsi elettorali, ancora oggi e fino alle prossime elezioni politiche formalmente pari a 200 milioni l’anno, debbano essere aggiunti altri fondi pubblici per 210-220 milioni. 
Anche per questa ragione concentrare la discussione sui soli rimborsi rischia di essere riduttivo. Certo su quel versante c’è molto da fare, anche volendo far finta che il referendum del 1993 non ci sia mai stato. Intanto non si può chiamare «rimborso» l’erogazione di una somma a forfait senza alcuna relazione, come non si stanca di ripetere la Corte dei Conti, con i denari effettivamente spesi per la campagna elettorale. Inoltre è quantomeno singolare che questo «rimborso» a forfait venga calcolato anche per il Senato, eletto con il voto di chi ha almeno 25 anni d’età , sulla base del numero decisamente più grande degli elettori della Camera, dove com’è noto si vota a partire dai diciott’anni. Infine è surreale che per entrare in Parlamento occorra superare (finora) una soglia di sbarramento del 4% mentre per accedere ai famosi rimborsi sia sufficiente arrivare all’1%. 
Ma soprattutto è assurdo che tutto questo fiume di denaro scorra senza controlli e nella più assoluta opacità . Qui sta il punto, e qui bisogna prima di tutto intervenire, scrivendo regole chiare e semplici che impongano ai partiti di mettere nei bilanci tutte le loro entrate reali, nero su bianco, e documentando le spese fino all’ultimo euro. Stabilendo dure sanzioni per chi non le rispetta, come il divieto a candidarsi a cariche elettive. Solo partendo da qui si può pensare di arrestare la corsa impazzita dei finanziamenti ai partiti, restituendo alla politica la dignità  che merita.
Se non ora, quando?


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