Solitudine e consolazione in una umidità  vegetale

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Ecco fin dal titolo la lingua disadorna di Antonella Anedda: chissà  quante volte leggiamo ogni giorno, sugli schermi dei nostri computer, l’espressione «salva con nome». Ma che succede se la banalità  distratta di queste parole viene assunta da un poeta – e addirittura a titolo di un libro? Siccome la poesia è rivoluzione, succede che il poeta le rovescia. Prima di tutto perché non c’è salvezza, ma soprattutto perché una ipotetica salvezza non starebbe certo nel rimanere avvinti come Gulliver alla mezza riga del nostro nome, starebbe invece nella breve consolazione di una carezza. Siamo salvi per la durata di una carezza, quando nello scudo ostinato della nostra sopravvivenza si forma la breccia del riconoscimento di un altro e allora la nostra mano si muove per toccarlo. 
Anedda prosegue il proprio cammino nell’arte della perdita fino alla perdita primaria, quella di sé, fino alla rosselliana estinzione di sé. Forse perché nell’essere nessuno è contenuto il dono di essere infiniti. Questa scrittura pare essere posta sotto assedio dalle vite degli altri. Quando l’io tocca il grado zero, quando viene perduto anche il nome, ecco che siamo diventati coro. La poesia di Anedda mantiene infatti una inclinazione plurale fin da Residenze invernali. Ma al principio si trattava di identificazione, o di dialogo a un tu, ora siamo nel cuore corale dell’umano, compreso il suo slittamento nell’umano humus dei morti. Eppure, fin dall’inizio del libro, nel testo terribile come un angelo Cucina 2005, i morti ci rinnegano. Forse, se pure ci guardano, scuotono il capo perché li abbiamo delusi. Fanno finta di non esserci, scrive Bandini dei morti, egli scrive che i morti sono buoni e rimangono invisibili per non spaventarci. 
Anedda non la pensa così: come nella Elegia orientale di Sokurov, in Salva con nome (Mondadori, pp. 119, euro 16) i morti non hanno desiderio di tornare, non hanno più alcun bisogno di esistere, saranno forse alberi, domani. Altrove Anedda scriveva che forse non conosciamo ancora la parola che servirebbe a farli voltare. Non è il nostro corpo, non è il bisogno che abbiamo di loro, tanto meno è l’incidente del nome, ci dice oggi. La poesia, in qualche modo oscuro agli stessi poeti, sembra venire anch’essa dalla immaginazione sospesa dei morti. Anche per ciò è un gesto politico radicale, eversivo quanto più il mondo rimuove la morte dalla faccia dell’Occidente e ne rimuove l’invecchiamento, dei corpi e del capitale, questo involontario eppure invincibile entrare nello spazio del dopo, nel freddo del proprio stesso corpo quasi denudato del suo sangue. 
Naturalmente Anedda espone il suo Spazio dell’invecchiare come ennesima prova di tenacia. «Spazio» è un concetto più commensurabile di «tempo», soprattutto contiene le piccole ancore (a volte demoniache) degli oggetti. Lo si impara da subito, nelle paure infantili. La paura è una contrazione, una nudità  vergognosa come una macchia di alopecia, una specie di marchio creaturale. È la paura che maledettamente ci arma. Anche in Anedda, come in Sokurov, c’è allora una tensione al vegetale, invece senza macchia e senza sangue. Il mondo incruento dei vegetali regge una solitudine verticale e rappresenta una consolazione, poiché attinge a una umidità  sepolta; forse come la vita dei poeti attinge alla polla del non visibile e ottiene libri come questo, onirico e visionario, pieno di spettri eppure aderentissimo al reale. 
I sogni che qui sembrano trascritti (come le variazioni metereologiche: quanta rassicurazione e insieme quanta ironia in questo «parlare del tempo», quanto inchinarsi allo splendore buono della lingua comune!) sono sogni pieni di oggetti e di voci, le visioni prendono quota a partire da immagini sempre concrete. Eppure qui si dice la follia, la malattia, la caduta che ferisce la nuca, ovvero quelle cose che all’improvviso precipitano il punto di vista, avvicinano al reale un altro mondo, parallelo come quello fluviale e marino: ci sono anche meridiani d’acqua in questo libro, acqua governata da acquedotti che calmano come calma la vista degli scheletri nei musei, se immaginiamo la materia fluida trasparente e viva composta nei canali interni a uno scheletro di muratura. Altrove il corpo è libero e sembra immergersi in sudari d’acqua, il mare è luogo di pace e sepoltura, un lenzuolo pietoso come quello che copre i corpi degli amanti distesi vicini. Perché, se Dio non esiste, siamo costretti a stare nel recinto degli oggetti e nel gesto della consolazione. Fatti, non parole. Gesti, non parole. Toccare il corpo, forse lievemente. Una questione di tepore umano. 
Non c’è speranza, non ci sono miracoli e rubini di sangue, ma ecchimosi, sbarre, sabbia nella bocca e orli di piombo, ancora lingua di scimmia e notizie sul tempo – perché adesso siamo forti abbastanza da sopportare l’evidenza del caso e della realtà  senza bisogno di eccedenze liriche, senza bisogno di Dio. Soli come Brodskij difronte alla cosa. Ma, dove Brodskij tende virilmente alla imponenza del marmo (l’azzurro del sistema / venoso che tende al marmo), Anedda è donna e tende al vegetale, a una impermanenza senza Dio. Perché abbiamo scoperto che possiamo resistere a ogni perdita, anche alla coscienza che verremo spazzati via dal vento come foto: perderemo spessore, lasceremo la terza dimensione. E allora Anedda sparge qui e là  nel libro cornici vuote, dettagli e facce, senza nome e senza didascalia, a dimostrarci subito che non importa, che domani anche noi saremo foto o alberi privi di sangue, cose che portano un destino comune, senza altra gloria che la tenerezza che abbiamo dato, salvi e finalmente senza nome.


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