Torna l’euro-angoscia Wall Street trema per il contagio planetario

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NEW YORK – «L’euro-angoscia mette in fuga i capitali» secondo il Financial Times che avverte una «crisi di legittimità  dell’Unione». Il doppio shock politico, Francia e Olanda, non risparmia Wall Street e da qui dilaga su tutti i mercati mondiali. «Una virata nella direzione dei venti politici, più una collisione di indicatori negativi» è il giudizio del New York Times.
All’indomani di un weekend cruciale per gli equilibri politici del Vecchio continente, la ripresa mondiale si ritrova di nuovo in ostaggio dell’eurozona in crisi. L’accumularsi di eventi è micidiale. Al primo posto: la massiccia dimensione del voto anti-europeo in Francia, se si sommano le due ali estreme Le Pen-Mélenchon che auspicano l’uscita di Parigi dall’euro, più le ripetute promesse anti-Schengen di Nicolas Sarkozy, più l’impegno di Franà§ois Hollande a «rinegoziare» daccapo tutto il patto fiscale europeo con Angela Merkel. Al secondo posto arriva a sorpresa la crisi politica in Olanda, che minaccia la tenuta della «roccaforte germano-centrica» nell’eurozona. Al terzo posto: una raffica di indicatori negativi (inattesa caduta dell’indice manifatturiero tedesco, contrazione degli ordinativi d’imprese in tutto il continente, conferma della recessione spagnola) fanno dire a Mark Miller di Capital Economics che «la recessione si aggrava e l’intera Unione non ne uscirà  per tutto l’anno», un giudizio che l’Associated Press lancia all’apertura del mercato americano.
Il quarto fattore di preoccupazione nasce dal bilancio che viene fatto, alla riapertura dopo il weekend, sul meeting di primavera del Fondo monetario internazionale che si è tenuto a Washington. Nessuno ha considerato credibile il bilancio ufficiale positivo. E’ vero, al summit si è deciso di aumentare le risorse dell’Fmi che potranno contribuire al «muro di fuoco» da usare per eventuali salvataggi nell’eurozona (vedi Spagna). Ma da quell’operazione si sono chiamati fuori, oltre agli Stati Uniti, anche due potenze emergenti come Cina e Brasile che rinviano continuamente il loro impegno concreto in favore dell’eurozona. Un pessimo segnale anche quello, in una fase in cui l’arsenale di aiuti di Mario Draghi, cioè i prestiti d’emergenza della Bce agli istituti di credito, comincia a mostrare i suoi limiti.
Sugli eventi politici il Wall Street Journal si permette una battuta: «Non bastava un Hollande, ci si mette pure l’Holland (l’Olanda in inglese, ndr)». Quel che accade nei Paesi Bassi è «un trauma perfino superiore al risultato elettorale francese» secondo il maggiore quotidiano economico e finanziario, perché indica una «polarizzazione del dibattito fra crescita e austerità » anche nei Paesi finora più stabili e virtuosi. L’Olanda è un modello di buona gestione, ha un debito pubblico che pesa solo per il 65% del suo Pil. I mercati hanno sempre visto i titoli del Tesoro olandese come un surrogato dei Bund tedeschi, tanto che lo spread fra i due paesi è un irrisorio 0,8%. Le dimissioni del premier olandese, la fronda di una destra locale che non accetta l’austerity, indicano che la resistenza al rigore germanico non è più solo un problema della periferia dell’Unione. Di qui la paura che si diffonde sui mercati mondiali, così sintetizzata dallo stesso Wall Street Journal: «Se perfino il nocciolo duro dell’eurozona nordica si dissocia dagli impegni di rigore nel bilancio pubblico, gli investitori tornano a dubitare che l’Unione possa uscirne fuori intatta». Il giudizio del Financial Times è simile: dalla crisi economica il suo pessimismo si allarga alla tenuta dell’Unione europea. Nel 2008 e nel 2009 era ancora credibile una narrativa della crisi che la descriveva importata dagli Stati Uniti, una terra di banchieri-pirati, di debitori irresponsabili, per di più governata fino agli albori del disastro da un presidente repubblicano. Quel mito, secondo il Financial Times, «aveva tenuto insieme un’identità  europea», oggi non regge più. Stremata dalla seconda recessione in quattro anni, e stavolta una recessione «fatta in casa», l’Europa sta perdendo fiducia nella costruzione comunitaria avviata mezzo secolo fa: i partiti tradizionali che ne furono i fautori, e in generale le classi dirigenti pro-europee, perdono consensi tra le opinioni pubbliche. I requiem per l’Unione europea si sono sentiti già  altre volte, a Londra o da questa parte dell’Atlantico dove l’euroscetticismo ha radici antiche. Stavolta però una preoccupazione unisce gli Stati Uniti alle potenze emergenti, dalla Cina al Brasile. Già  si avvertono i segnali di rallentamento della crescita americana, cinese e brasiliana: e dietro questa frenata c’è il «buco nero» dell’economia europea, il più vasto mercato del pianeta, così depresso da contagiare (attraverso la caduta delle importazioni) anche chi sta meglio. Lo scenario politico visto da Washington, Brasilia e Pechino, nella migliore delle ipotesi sfocia su un lungo negoziato tra la Francia e la Germania per rivedere il patto fiscale dell’eurozona. L’esatto contrario di una luna di miele tra Merkel e il neopresidente francese, semmai una sorta di «prova di divorzio» nell’asse storico Berlino-Parigi. Anche se la ragione dice che alla fine quell’asse dovrebbe sopravvivere, Wall Street e la Casa Bianca, così come i leader dei Brics, mettono in conto mesi di instabilità  sul Vecchio continente.


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