Un contratto molto contrastato

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Tra i pochi contratti che sono stati rinnovati negli ultimi tempi c’è quello dei bancari. Categoria a suo modo «motica», identificata con il privilegio della vicinanza ai luoghi del potere per eccellenza: quello finanziario. Niente di tutto questo, nella realtà  quotidiana. Certo, meglio che in fonderia o a fare il macchinista ferroviere (vedi sopra), ma un lavoro comunque pieno di problemi. 
Il contratto, si diceva, è stato approvato con una votazione molto contrastata e con una partecipazione che ha registrato un record (un terzo degli aventi diritto). Ha votato a favore poco più del 59%, ha detto «no» quasi il 40. Lo scarto finale è di 17.000 voti; tanti, secondo le sigle che hanno sostenuto il «sì», pochi per gli oppositori.
Il problema nasce dal fatto che per il ‘sì’ erano tutte le sigle principali: Cgil, Cisl, Uil e la potente Fabi. Contro, ufficialmente, soltanto l’area programmatica «la Cgil che vogliamo» e la Falcri, un sindacato indipendente con qualche connotazione «di base». Lo squilibrio organizzativo di partenza era dunque straordinario, specie se confrontato con il risultato.
La contrarietà , spiegava la Falcri durante la «campagna referendaria», aveva molte ragioni. Questo nuovo contratto «riduce del 20% il salario dei contratti complementari», «introduce un salario d’ingresso ridotto del 18%, per 4 anni», «fa pagare ai lavoratori con un giorno di lavoro in più eventuali assunzioni», «allunga gli orari di sportello fino a 15 ore al giorno», «non prevede alcun recupero dell’inflazione per il periodo 2008-2011», «concede aumenti salariali insufficienti rispetto alla perdita del potere d’acquisto», « modifica la base di calcolo del Tfr, cancellandone 11 voci retributive», «gli aumenti non conteranno per Tfr, pensioni, previdenza fino a metà  2014», «blocca gli scatti d’anzianità  per 19 mesi», «consente alle aziende di modificare in peggio i contratti in deroga al Ccnl», «segna la fine del concetto di “demansionamento”, attraverso la piena fungibilità ». Un elenco sterminato che non sembra davvero frutto del puro capriccio. 
Il coordinatore della minoranza Cgil Domenico Moccia (ex segretario nazionale, battuto al Congresso di Rimini) dà  voce a perplessità  che nella categoria si sono rivelate molto forti. «Che nei principali gruppi creditizi sia prevalso il ‘no’, che questo sia diffuso su tutto il territorio in modo uniforme, che le piazze di Napoli, Roma, Genova e Torino boccino la conclusione e che nella stessa Milano i ‘sì’ prevalgano per frazioni marginali dovrebbe indurre una riflessione seria e autocritica sui contenuti dell’ipotesi di accordo e sul grave deficit di democrazia che ha caratterizzato l’intera fase negoziale». Ad un certo punto, in effetti, i ‘no’ erano dati addirittura in sostanzioso vantaggio.
«C’è poco da essere soddisfatti: critiche e posizioni contrarie si sono attestate ben oltre il 40%»; un dato che «seri gruppi dirigenti non dovrebbero né rimuovere, né etichettare come pericoloso scissionismo». Le accuse di «strumentalizzazione», lanciate soprattutto dalla Fabi, vengono respinte al mittente: «quantità  e la qualità  dei ‘no’ smentiscono che possano essere, il frutto della ‘battaglia irresponsabile e strumentale’ della sola minoranza della Fisac». «E’ vero semmai il contrario. Abbiamo intercettato e dato voce al dissenso, al malessere di tanti lavoratrici e lavoratori operanti in un settore strategico al centro dell’attuale crisi economica e finanziaria e sottoposti, anche per questo, a fortissime pressioni».


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