UNA RIFORMA A FAVORE DEL PIU’ FORTE

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Prendere in esame le limitazioni delle facoltà  del giudice a tutela del più debole apportate dal ddl è un efficace filo conduttore per non perdersi nelle 79 pagine di questo, per di più irte di dozzine di intricati rimandi a leggi preesistenti. A volte sembra che dette facoltà  siano accresciute, ma a ben vedere quasi ovunque sono ridotte. Si prenda l’articolo 18, travestito in modo da apparire un parente della versione originale, ma in realtà  radicalmente mutato. Il primo comma dei dieci che nel ddl sostituiscono i commi dal primo al sesto dell’articolo in questione attribuisce al giudice la facoltà  di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, in caso di licenziamento discriminatorio, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. Sulle prime questa parrebbe una novità  meritoria, poiché da ogni parte si è sempre detto che l’articolo 18 si applica solo alle aziende con più di 15 dipendenti. E qualche voce del governo si è pure levata per far notare questa straordinaria innovazione a favore dei lavoratori. In verità  si tratta di un dispositivo che ha più di vent’anni. La legge numero 108 del 1990 stabilisce infatti, all’articolo 3, che nel caso di licenziamento determinato da ragioni discriminatorie si applicano le conseguenze dell’articolo 18, cioè il reintegro nel posto di lavoro, quale che sia il numero dei dipendenti.
A una facoltà  di vecchia data presentata come nuova si affianca, sempre nell’articolo 18 ristrutturato, la drastica riduzione della facoltà  del giudice di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Nella precedente formulazione il giudice, a fronte di licenziamento intimato senza giustificato motivo, ordinava al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore. Il comma 7 del nuovo articolo stabilisce anzitutto che il giudice può, non deve, applicare la predetta disciplina. Stabilire che un giudice non già  deve, ma – se crede – può applicare una certa disciplina, in questo caso il reintegro del lavoratore, significa palesemente indebolirlo. Se ha il dovere di prendere una certa decisione è difficile sottoporlo a pressioni perché non lo faccia. Mentre se la sua facoltà  è solamente facoltativa – non è un gioco di parole – è possibile che prima venga sollecitato da ogni parte affinché la eserciti nel modo più favorevole all’una o all’altra parte, e poi sia oggetto di valutazioni negative quale che sia la decisione presa.
Tuttavia ciò che ancor più riduce la facoltà  del giudice di decidere il reintegro è che esso può effettuarsi soltanto nell’ipotesi in cui egli accerti la “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ovvero per ragioni economiche. Che sono quelle inerenti all’attività  produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, come dice la legge 604 sui licenziamenti individuali del lontano 1966. Qui il giudice che volesse procedere in senso favorevole al lavoratore si trova dinanzi a due ostacoli monumentali. Il primo è costituito dalle infinite ragioni di ordine produttivo, organizzativo e funzionale che un datore di lavoro può addurre per sostenere che quel tale licenziamento è giustificato. Il secondo ostacolo è la giurisprudenza. Un flusso ininterrotto di essa, consistente soprattutto in sentenze della Cassazione, ha infatti stabilito che le ragioni economiche addotte per un licenziamento sono insindacabili, in forza dell’articolo 41 della Costituzione per il quale l’iniziativa economica privata è libera. Un giudice ha facoltà  di andare contro di esse soltanto nel caso remoto in cui, ad esempio, scopra nella motivazione o nei documenti esibiti come prova dall’impresa un falso clamoroso. Pertanto sapeva bene quanto si diceva il presidente del Consiglio allorché ha assicurato le imprese, subito dopo la presentazione del ddl, che “la permanenza in esso della parola reintegro è riferita a fattispecie estreme e improbabili”.
La facoltà  del giudice del lavoro di andare a fondo allo scopo di stabilire se le ragioni del licenziamento sono valide è altresì indebolita dall’articolo 15 del ddl, con l’aggravante che in questo caso si tratta di licenziamenti collettivi. Esso aggiunge all’articolo 4 di una legge del 1991 in materia di integrazione salariale, la 223, un periodo apparentemente innocuo: “Gli eventuali vizi della comunicazione [per l’avvio di procedure di mobilità  perché l’impresa non è in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi] possono essere sanati, ad ogni effetto di legge, nell’ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della procedura di licenziamento collettivo.” Diversi giuslavoristi hanno già  commentato negativamente tale aggiunta. In effetti i vizi di una simile comunicazione possono riguardare innumerevoli e rilevanti aspetti di essa: i tempi, i contenuti, i documenti allegati, i riferimenti a date, luoghi e persone, l’interpretazione di leggi vigenti ecc. Che detti vizi possano venire sanati in anticipo da un mero accordo sindacale, piuttosto che sottoposti all’esame di un giudice che a fronte di essi ha la facoltà  di invalidare eventualmente il licenziamento stesso, dovrebbe apparire inaudito anche a un non giurista.
Qualsiasi legge si compendia, alla fine, nelle facoltà  che essa assegna al giudice di valutare le ragioni delle parti in causa e di decidere quale di esse debba prevalere. Nel caso della legislazione sul lavoro, questa deve certo badare a che la libertà  di iniziativa dell’impresa sia salvaguardata, ma deve pure circoscrivere il rischio che la parte più debole sul piano economico, il lavoratore, non si trovi collocato automaticamente nella posizione più debole anche sul piano giuridico, al caso quando si trova davanti a un giudice. È quello che ha fatto per più di quarant’anni la legge 300 del 1970, lo Statuto dei lavoratori. Il ddl di riforma del mercato del lavoro, salvo modifiche in Parlamento, azzera i dispositivi più progrediti di tale legge, e nel limitare le facoltà  giudicanti del giudice appare palesemente squilibrata a favore della parte più forte, l’impresa.


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