Unione Sovietica, Caccia agli aerei Nato e hockey i videogiochi dell’era comunista

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Abbattere caccia della Nato e vincere il campionato mondiale di hockey vestendo il rosso scarlatto dell’Unione Sovietica. Benvenuti nel Museo delle Macchine da Sala Giochi Sovietiche, aperto nella periferia nord est di Mosca, in una ex fabbrica. Trecentocinquanta metri quadrati zeppi di “arcade” (i videogiochi fatti per le sale giochi) prodotti fra i tardi anni Settanta e il 1991, dal tramonto dell’era brezneviana e l’ascesa di Jurij Andropov, alla dissoluzione dell’Urss. Storia poco nota, figlia minore di processi macroscopici che quasi per un accidente diedero vita ai primi videogame comunisti. 
Modelli che oggi sembrano un po’ rozzi, fatti su imitazione del calcio balilla o di una partita di basket, traduzioni elettroniche dei giochi da fiera con il fucile e delle simulazioni di guerra.
«Morskoi Boi, battaglia navale, venne costruito nel 1981 da un’azienda che produceva i sistemi di guida dei missili dalla marina», spiega Alexandr Stakhanov, curatore ventinovenne del museo, che si è fatto ritrarre a fianco del grosso cabinato rosso e verde con periscopio da sommergibile. «Al tempo l’industria bellica aveva un sacco di tempo libero e di risorse disponibili in seguito al processo di distensione. E per mantenersi occupate alcune fabbriche cominciarono a progettare queste macchine». 
Poco dopo, siamo nel 1985, Aleksej Pajitnov dell’Accademia delle Scienze dell’Urss, avrebbe messo a punto Tetris, il più famoso fra videogame russi. Proprio quando Michail Gorbaciov prendeva la guida del partito comunista sovietico e mentre il mondo dei videogame stava esplodendo. L’anno di Gorbaciov al Cremlino è lo stesso della pubblicazione di Super Mario Bros per console Nintendo, veduto in 40 milioni di copie. E mentre Morskoi Boi usciva dalla fabbrica, nelle sale giochi giapponesi e americane erano già  passati Space Invaders, Pac-man, Donkey Kong. E nei negozi l’Atari 2600, il Commodore 64, il Famicom, mentre al cinema era uscito War Games con Matthew Broderick che, nel ruolo di un hacker adolescente, prima rischiava di scatenare la guerra nucleare con i Russi proprio con un gioco elettronico, poi riusciva ad far ragionare il super computer della difesa americana. “L’unica mossa vincente è non giocare”, scriveva il cervellone bloccando all’ultimo il lancio delle testate verso l’Urss. 
E invece in Russia hanno giocato eccome, ma per nostra fortuna solo ai videogame dove comunque crivellavano di colpi le forze occidentali. «Erano l’unica cosa con la quale i ragazzi si potevano divertire», ricorda Dmitry Glukhovsky, scrittore russo noto per Metro 2033, romanzo open source pubblicato online e scaricato da due milioni di persone. «Non sapevamo nulla della Nintendo, né della Atari. C’erano solo gli arcade sovietici. Chiunque abbia più di trent’anni ci ha passato ore e ore davanti». La collezione del museo sembra il riflesso sbiadito di quel che oltrecortina s’era visto almeno dieci anni prima. Morskoi Boi è similissimo a Sea Raider della Midway apparso nel 1969, Gorodki dell’89 assomiglia invece al Pong del ‘72, Magistral del 1990 a decine di giochi di guida cominciando da Pole Position dell”82. Qualcuno, fra i progettisti, il nostro mondo dei videogame doveva conoscerlo bene decidendo di farne cosa comunista e diffondendoli negli anni Ottanta come divertimento di massa. Ora sono diventati fenomeno di culto, così come è accaduto qui con Space Invaders e i suoi fratelli. Primo segno di un tratto comune, il consumo sfrenato di tecnologia, nato in due culture all’epoca separate.


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