Università , la rivolta degli ordinari

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Dopo l’ostinato silenzio mantenuto dal 2008 da parte della stragrande maggioranza dei docenti italiani sulla riforma Gelmini, quella di ieri può essere considerata una prima presa di posizione contro il ventennale ciclo «riformatore» che ha trasfigurato l’università  italiana in un comparto merceologico. Gli 800 firmatari dell’appello promosso dagli organizzatori dell’assemblea troveranno modo di esprimere la «sensazione di disagio» che da tempo li attanagliava, così l’ha descritta D’Orsi, nella «Carta di Roma» che vedrà  la luce nelle prossime ore. Tra i suoi punti c’è l’abolizione di una parte della riforma Gelmini, ma anche delle basi della riforma Berlinguer-Zecchino: i cicli didattici organizzati con il «3+2», e poi si chiede anche il ritorno ai corsi di laurea, l’abolizione dei crediti (Cfu) e ripristino della figura del ricercatore a tempo indeterminato, la richiesta del reclutamento di nuovi ricercatori, il ripristino del ruolo del Senato Accademico, l’istituzione di liste nazionali di idoneità . Rispetto a questa ipotesi, nel dibattito universitario esistono posizioni diverse. I ricercatori precari chiedono, ad esempio, un’unica tenure track (invece delle due attuali), un contratto unico che annulli tutte le forme di precariato esistenti. La situazione resta grave per tutti. Piero Bevilacqua ha ricordato agli oltre cento presenti che l’università  pensata negli ultimi vent’anni è quella adatta ad un lavoro sottopagato, dove i posti più richiesti dal mercato saranno sempre meno qualificati. È in corso un attacco contro le humanities , già  gravate da un sistema di valutazione che subordina l’autonomia individuale ad un «pronto uso di carattere aziendale». Una volta ultimato il processo di aggregazione di alcune fasce docenti su una singola proposta, si spera che nel prossimo futuro ci sia spazio per una serie di iniziative comuni. L’assemblea romana di ieri è giunta una settimana dopo quella bolognese «Università  bene comune» che ha visto la partecipazione di studenti, ricercatori e docenti della scuola. Visti i tempi, non guasterebbe che la formazione, l’università  e la ricerca parlassero con una voce unica.


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