Class action contro Facebook e Morgan in Borsa boccata d’ossigeno per il titolo

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Quello che doveva essere il trionfo del social network sta diventando una pagina umiliante della sua storia. Le class action si accavallano in diversi tribunali degli Stati Uniti, da Manhattan alla California. Il collocamento a Wall Street per la creatura di Mark Zuckerberg sta diventando la “tempesta perfetta”, una congiunzione di scandali. 
Oltre al fondatore di Facebook, sotto accusa ci sono le 33 banche che hanno gestito il collocamento, tra cui spiccano Morgan Stanley e Goldman Sachs, con accuse di insider trading e altri presunti reati, tutti legati alle modalità  della vendita iniziale di azioni. La quarta giornata di contrattazioni ha visto un recupero del titolo, che resta pur sempre “sotto” del 15% circa rispetto al prezzo stabilito nella giornata del collocamento. L’ira degli azionisti non risparmia la Borsa stessa, cioè il Nasdaq dove Facebook è quotata. Il Nasdaq è citato da una delle tre cause giudiziarie, presentata alla corte federale di Manhattan da un investitore del Maryland che punta a organizzare tutti gli azionisti. L’accusa contro il Nasdaq è di colpevole negligenza, con danni economici pesanti per gli investitori, in seguito al caos che per diverse ore paralizzò le quotazioni il primo giorno, venerdì 18 (e ieri notte voci ipotizzavano il trasferimento del titolo sul listino principale del New York Stock Exchange, dal Nasdaq Stock Market). Una seconda causa, anch’essa destinata a trasformarsi in class action in difesa dell’intera categoria degli azionisti, è stata avviata presso la California Superior Court di Los Angeles: qui si accusa Zuckerberg e il top management di “false dichiarazioni” che hanno indotto in errore gli investitori nascondendo la situazione reale dei conti aziendali. Nella terza causa oltre all’azienda compaiono come accusati di frode anche i banchieri, tutti quelli che fanno parte del consorzio di collocamento. E’ qui che spuntano i sospetti di insider trading. L’accusa è legata a quanto avvenuto nel “periodo silente” in cui le regole del mercato proibiscono alle banche collocatrici di pubblicare analisi e raccomandazioni sulla società  che stanno vendendo. Secondo gli autori della denuncia, il “silenzio” sarebbe stato a dir poco selettivo. In sostanza, pochi giorni prima di piazzare le azioni sul mercato, alcune banche avrebbero scoperto che le prospettive di redditività  futura di Facebook sono meno brillanti di quanto era stato scritto sulla documentazione (prospetto informativo) del collocamento. A quel punto le banche, pur rispettando erga omnes l’obbligo del silenzio, avrebbero «comunicato verbalmente» ad alcuni grossi clienti la revisione negativa. E così i Vip si sarebbero regolati di conseguenza, mentre tutti gli altri investitori sono rimasti all’oscuro del peggioramento, e sono andati allo sbaraglio di fronte alla caduta del titolo sul mercato. Morgan Stanley ha riposto alle accuse dichiarando di «aver seguito le stesse procedure applicate per ogni altro collocamento». Intanto una società  di analisi del gruppo Standard & Poor’s, che non è tenuta al silenzio, ha consigliato di vendere i titoli di Facebook esprimendo «dubbi sull’efficacia della piattaforma pubblicitaria, sui margini di redditività  legati ai messaggi di marketing, e sui rischi che derivano dall’uso di informazioni personali sensibili».


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