Curcio: quell’attentato fuori dalla realtà  l’Italia in cui si sparava non esiste più

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TORINO – Nel mondo in cui i correttori automatici non riconoscono il suo cognome, Renato Curcio se ne sta dentro uno stand del Salone del libro di Torino come un piccolo editore qualsiasi. «Genova? Le gambizzazioni? Adinolfi? Non ha senso, non è la mia storia». Eppure il signor Curcio le Br le ha fondate all’inizio degli anni Settanta.
Possibile, Curcio, che le notizie di questi giorni non le facciano effetto?
«Non sono queste le notizie che mi fanno effetto. O meglio non sono queste le cose principali che accadono in questo paese».
Una persona colpita alle gambe, a freddo, di prima mattina mentre esce di casa. Non stiamo tornando agli anni Settanta?
«Non intendo ritornare sulla mia storia. Non sarebbe giusto. Oggi io faccio l’editore, lavoro in una cooperativa con 300 persone, non sarebbe giusto che coinvolgessi loro in un passato che è solo mio».
Il volantino di rivendicazione parla di violenza necessaria, cerca di proporre giustificazioni. Non facevate altrettanto anche voi?
«La nostra violenza veniva dalla storia del Novecento. Aveva alle spalle gli anni Sessanta ma anche le vicende della Resistenza e della guerra. Da ragazzini andavamo a sentire le storie che raccontavano i partigiani. Noi siamo cresciuti cosà­. Quell’Italia non c’è più».
Non parrebbe. Tornano le gambizzazioni e le rivendicazioni, gli obiettivi simbolici che sono però in carne e ossa…
«Nell’Italia di oggi tutto questo non ha senso. Viviamo in una società  completamente diversa. Per questo dico che non è la mia storia».
Ma lei condanna questa violenza?
«Io vedo che in questa storia della rivendicazione c’era un’attesa spasmodica. I giornali la aspettavano da giorni e la rivendicazione è arrivata. Quella rivendicazione, e anche l’azione che prova a giustificare, fanno parte di un mondo che ha poco rapporto con la realtà ».
E qual è, secondo lei, la realtà ?
«La realtà  è quella della crisi che coinvolge tante persone e le mette di fronte a situazioni insostenibili. Quella è la realtà , molto concreta e molto poco simbolica».
Com’è possibile per una persona come lei dire, di fronte ai fatti di Genova, «non è la mia storia?»
«Senta, io sono stato arrestato nel 1974 e sono uscito dal carcere nel 1993. Alla fine degli anni Ottanta io e i miei compagni in carcere abbiamo deciso di sciogliere il patto che ci legava. Già  allora lo avevamo fatto perché ritenevamo che le nostre scelte precedenti fossero ormai superate dall’evoluzione che c’era stata nella società  italiana. Si immagini se adesso, a quarant’anni di distanza, posso sentirmi coinvolto da fatti che sono ormai lontanissimi dal contesto e dalle scelte che avevamo compiuto noi. Io oggi sono un editore. Mi occupo di quei fatti lontani solo perché pubblichiamo dei testi di indagine su quegli anni, indagini scientifiche, condotti da primarie università . I nostri libri vengono acquistati, soprattutto all’estero».
Vorrebbe essere dimenticato per quel passato?
«So che non sarà  possibile. Non mi cercate solo voi giornalisti ma anche altri che vogliono avere suggerimenti per cercare di interpretare quel che accade oggi sulla base della mia esperienza. Ma io sono costretto a deludere tutti. Anzi, facciamo così. Diciamo che non ci siamo parlati e che gradirei che questa conversazione non venisse pubblicata. Non ho niente da dire».


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