Egitto, la febbre delle presidenziali

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IL CAIRO – Finalmente sono iniziate le 48 ore di silenzio elettorale prima del voto per le presidenziali. In un Paese dove fino a quindici mesi fa si scompariva nel nulla solo per aver pubblicamente criticato il raìs Mubarak, i 52 milioni di egiziani chiamati al voto sono stati sottoposti a una martellante campagna elettorale in stile americano dai 13 candidati rimasti in lizza. Marce, sit-in, comizi, gigantografie per le strade, manifesti sui taxi, sulle macchine private, dibattiti in tv che hanno tenuto incollati allo schermo milioni di egiziani, sms sui telefonini e video sugli smartphone. Un diluvio di denaro investito che fa gridare allo scandalo un paese nel quale metà  della popolazione vive con 2 dollari al giorno. Ma nei bar, per strada negli uffici non si parla d’altro. 
Sono le prime “vere” elezioni presidenziali nella storia del mondo arabo. La combinazione di novità , alta posta in gioco, suspense e confusione, hanno contagiato l’Egitto come se fosse alla finale dei mondiali di calcio. Non ci sono sondaggi affidabili qui per capire come andrà  a finire. Né una Costituzione che imposti le funzioni e i poteri del presidente che verrà  eletto; né quale sarà  il ruolo dei militari nel futuro del Paese, loro che da sempre sono i veri arbitri dei destini dell’Egitto. E non è un caso che tutti i presidenti (Nasser, Sadat, Mubarak) siano venuti proprio dalle loro file. Ma c’è una diffusa convinzione che chiunque vinca le elezioni avrà  un ruolo importante nella creazione del nuovo Egitto per decenni a venire.
Così nei caffè dei quartieri popolari come in quelli più eleganti del centro un ronzio costante di nomi dei candidati aleggia sopra i tavoli e gli avventori si dividono in campi di appassionati a favore dei quattro-cinque contendenti plausibili ancora in pista. Da “Groppi”, storico locale del centro – dove Nasser andava a bere il caffè al mattino prima di andare in “ufficio” – frequentato da artisti, intellettuali, studenti ma anche da tassisti e negozianti è certamente Amr Moussa, l’ex segretario generale della Lega Araba, il nome più ricorrente. Ma basta sedersi al caffè in un quartiere popolare per sentire i consensi crescere per l’islamico Abdul Moneim Abol Fotoh, fuoriuscito dei Fratelli Musulmani, e per il candidato ufficiale della Fratellanza, Mohammed Morsi. L’ultimo premier dell’era Mubarak, Ahmed Shafik, sale nelle valutazioni dei giornali ma non tanto in quelle dell’uomo della strada.
Tra i più “papabili” a sedersi sulla sedia che Mubarak occupò con ogni mezzo per più di trent’anni, c’è certamente Amr Moussa, che è stato anche ministro degli Esteri durante il regime del raìs e gode dell’appoggio di parte della minoranza cristiana, circa il 10 per cento della popolazione. Il 75enne Moussa, sostenuto dalla classe media dei laici e liberali, durante la campagna elettorale ha fatto leva soprattutto sulla sua grande esperienza diplomatica conquistata sulla scena internazionale. Altro favorito è il prescelto della Fratellanza, Mohamed Morsi, che risulta già  in vantaggio nel voto all’estero, grazie al massiccio sostegno della comunità  egiziana in Arabia Saudita. Candidato di peso anche Abdul Moneim Abol Fotoh, storica anima riformista dei Fratelli Musulmani ma espulso dall’organizzazione per volontà  dell’ala più conservatrice. Rinchiuso per molti anni in carcere sotto Mubarak, Fotoh è sostenuto dagli islamisti moderati ma anche da parte dei giovani della rivoluzione e da alcuni liberali e socialisti. Se sono profondamente divisi sulla politica interna, sulla politica estera tutti i candidati hanno fatto delle relazioni future con Israele – con cui esiste il trattato di pace di Camp David firmato nel 1979 – il centro del loro programma: quel trattato va rivisto ed emendato e relazioni diplomatiche fra i due Paesi vanno inserite in un contesto diverso. 
Se al voto di domani e giovedì nessun candidato dovesse ottenere la maggioranza assoluta, è previsto un ballottaggio il 16 e 17 giugno. E proprio entro la fine di giugno il Consiglio Supremo delle Forze Armate, la Giunta che regge il Paese, ha promesso che cederà  i poteri al neo-eletto presidente; un passaggio invocato a gran voce in questi mesi dalle numerose proteste che hanno continuato ad animare e insanguinare piazza Tahrir. Ieri sera l’icona della rivolta anti-regime era sporca e piena di spazzatura, invasa dagli ambulanti che vendono di tutto. Sui marciapiedi male illuminati il solito piccolo contrabbando, i ragazzi che spacciano l’hashish all’angolo con la Talaat Harb. Ma potrebbe ricambiare volto in un attimo.


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