La critica dell’extralarge condanna l’uomo moderno

by Editore | 31 Maggio 2012 7:44

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Nella società  della leggerezza il peso è un handicap. E l’obesità  una colpa. È un vero stigma quello che oggi marchia gli over-size, additandoli alla pubblica condanna. Le accuse? Voracità  bulimica, mancanza di autocontrollo, improduttività  lavorativa, analfabetismo alimentare, sublimazione libidica. I drop out della taglia estrema devono fare i conti con una diffusa presunzione di colpevolezza che ne fa i nuovi paria del villaggio globale. Umiliati e obesi. E pure puniti. Tant’è vero che guadagnano in media il 18 per cento in meno dei normopeso. Lo rivela, cifre alla mano, una recentissima ricerca svedese. Non c’è bisogno di scomodare le veneri di Tiziano e Rubens per rendersi conto di come maniglie dell’amore e cuscinetti adiposi servissero ad aumentare l’appeal femminile. Mentre gote rubizze, ventri prominenti e maestosi doppi menti erano il contrassegno del potere e del prestigio maschili. Peso sociale tradotto in massa corporea. Fustacci e maggiorate, uomini di panza e matrone come la Saraghina di Fellini erano i simboli estetici ed erotici di un’umanità  che sognava l’abbondanza. Del resto è ancora così in tutte quelle parti del mondo dove l’emergenza alimentare non è ancora finita. È il caso dei lavoratori indiani che emigrano dalle regioni più povere del subcontinente e fanno fortuna a Dubai. Nuovi ricchi che hanno l’obesità  come mission. Perché i clienti misurano il loro successo e la loro solvibilità  sulla stazza più che sui report delle agenzie di rating. Per la stessa ragione i capi polinesiani e i re africani dovevano avere fisici debordanti che facessero da contrappeso simbolico ai loro privilegi. Non a caso venivano chiamati big men. E gli abitanti delle isole Salomone dicevano che un vero leader deve colare lardo. 
Ma perfino dove grasso è bello esiste una soglia che non si deve superare. Si può dire infatti che la condanna dell’eccessiva pinguedine sia antica quanto l’uomo. A fare la differenza però sono i pesi e le misure che in tempi e luoghi diversi fissano la soglia della normalità . È vero insomma che tutte le società  disapprovano la dismisura. Ma è altrettanto vero che la dismisura non ha una taglia fissa. Anche dove la grassezza è segno di importanza e di forza, superato quel limite cambia di segno. E diventa sintomo di intemperanza, di gola, di avidità . Un vizio capitale che porta dritto dritto all’inferno. Come nell’Europa medievale. È proprio allora che nasce lo stereotipo dell’ebreo obeso, figlio primogenito del ricco Epulone evangelico. Un pregiudizio che viene rispolverato dall’antisemitismo otto-novecentesco, soprattutto dal nazismo, che lo trasforma nella metafora politica del giudeo parassita, che ingrassa a spese della società . Le tragiche conseguenze di questa ideologia devono mettere in guardia da facili semplificazioni o da giudizi sommari. Perché spesso dal salutismo al razzismo il passo è breve. Ora come allora.
Anche se anticamente ad essere condannata non è tanto la stazza in se stessa quanto gli appetiti smodati di cui essa è prova evidente. Ragioni etiche più che estetiche. Ideologiche più che fisiologiche. Ad essere davvero in questione, infatti, non è il corpo ma l’anima, non è la salute ma la salvezza. È la nostra modernità  a cambiare le carte in tavola facendo del sovrappeso un problema individuale, la spia di un disagio interiore. È così che l’obesità  smette di essere un peccato per diventare una malattia. Definita da parametri scientifici sempre più esatti. Oggi ci sembra scontato sapere quanti chili siamo, ma fino ai primi del Novecento quasi nessuno montava sulla bilancia. Insomma in poco più di un secolo l’obesità  è passata dal mondo del pressappoco all’universo della precisione. Fino a inventare un parametro come l’Imc, ovvero l’indice di massa corporea. Che prende le misure alla nostra vita, oltre che al girovita. E ci restituisce l’immagine inquietante di un pianeta sempre più smisurato. Stando alle previsioni dell’Ocse in Paesi come Usa e Regno Unito fra dieci anni quasi il 70 per cento dei cittadini sarà  in sovrappeso e l’obesità  raggiungerà  livelli da capogiro. E così le carni tremule degli over size diventano l’ologramma di un mondo schizofrenicamente diviso tra chi non ha abbastanza e chi ha troppo. Tra quelli che hanno un bisogno disperato di mangiare e quelli che hanno un bisogno disperato di non mangiare.
E se nelle pagelle scolastiche statunitensi il peso corporeo determina il voto di condotta, il costo delle polizze assicurative oscilla con l’ago della bilancia. Insomma se il corpo è l’indicatore del rapporto tra individuo e società , peso e misura ne sono l’algoritmo. Sempre variabile nel tempo. Fino agli Anni Sessanta, infatti, con la fame della guerra ancora impressa nella mente, il grasso era una manna dal cielo. Essere pasciuti, ancor meglio se panciuti, era il segno tangibile dell’opulenza. E dunque del benessere e della bellezza.

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