L’Intifada della fame il digiuno dei detenuti diventa una bandiera

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È stato un altro lungo giorno di digiuno per Taher Halahla e Bilal Diab, i due detenuti palestinesi arrivati al settantaduesimo giorno senza cibo. Non sono soli, altri sette detenuti da qualche giorno si sono uniti a loro. Sono pronti ad andare avanti a oltranza fino alle estreme conseguenze, lasciarsi morire di inedia dietro le mura grigie del famigerato carcere di Ofer, l’Incarceration Facility 385 secondo il linguaggio burocratico dell’Amministrazione penitenziaria israeliana. Altri 1600 li stanno seguendo ormai da quasi un mese. Perché lo sciopero della fame è l’unico mezzo che i detenuti palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane senza accuse formali – qui li chiamano “arresti amministrativi”, si tratta dell’equivalente di una detenzione preventiva – hanno per ottenere la liberazione. 
Come i ragazzi dell’Ira a Belfast nel penitenziario di Maze nel 1981, Taher, Diab e gli altri hanno intenzione di andare avanti fino alla fine, come gli otto che seguirono il destino di Bobby Sands, il primo che si lasciò morire scuotendo le coscienze nel maggio del 1981 dopo 66 giorni di digiuno. Se dovesse morire uno di loro questa “Intifada della fame” dietro le sbarre potrebbe scatenare violenze in tutti i Territori palestinesi occupati, dove questa protesta è sentita, sostenuta e appoggiata. 
Ieri la Croce rossa internazionale ha chiesto per sei di questi detenuti il ricovero in ospedale per le loro gravi condizioni e ha chiesto anche, per ora invano, che sia consentito loro di ricevere le visite dei parenti in carcere. Dopo la rivolta della rete, le denunce su Facebook e Twitter, sono decine le manifestazioni anche nei paesi più piccoli della Cisgiordania e le marce di sostegno, con la gente che mostra le foto dei parenti incarcerati che partecipano alla protesta nelle celle. Lo scorso 17 aprile in occasione della “giornata del detenuto” tre quarti dei 4700 prigionieri palestinesi hanno rifiutato il cibo. 
Non è il primo grande sciopero nelle carceri israeliane – nel 2004 diecimila detenuti rifiutarono il cibo per 17 giorni – ma è la prima volta che un gruppo ha deciso di portare avanti fino alla fine. L’iniziatore di questa protesta è stato un fornaio di 34 anni, Khadnan Adnan, militante della Jihad islamica, che aveva iniziato lo sciopero della fame dopo essere finito in cella lo scorso anno senza imputazioni. In carcere per un “arresto amministrativo” – e senza essere mai stato portato davanti a un giudice – Adnan ha rifiutato il cibo per 73 giorni prima di vincere la sua battaglia ed essere rilasciato.
L’avvocato Jawad Boulos, che rappresenta l’Associazione dei palestinesi detenuti in Israele, spiega a Repubblica che lo sciopero della fame a oltranza nelle prigioni israeliane viene condotto da due gruppi distinti, che hanno obiettivi diversi. Il primo gruppo di sette carcerati ha iniziato lo sciopero della fame circa due mesi fa. Alcuni, come appunto Diab e Halahla, vogliono l’annullamento degli arresti amministrativi decretati da un tribunale militare. Un altro, Muhammed Taj, chiede di essere riconosciuto “prigioniero di guerra”. Un altro ancora, catturato a Gaza, chiede di tornare libero nella Striscia. Il secondo gruppo – che conta circa 1.600 prigionieri – lotta per un miglioramento delle condizioni di reclusione. Fra le richieste, l’abolizione dell’isolamento e l’accesso a siti accademici online. Poi ci sono settecento detenuti originari di Gaza – sempre secondo l’avvocato Boulos – che non ricevono visite dei loro congiunti da cinque anni, come ritorsione per il rapimento del caporale israeliano Gilad Shalit, che però nel frattempo ha riacquistato la libertà . 
Il trattamento dei detenuti in Israele è uno dei temi più sentiti tra i palestinesi. I crimini per cui vengono arrestati sono dei più vari, dal semplice lancio di pietre all’organizzazione di attacchi terroristici. Tra i 4700 palestinesi detenuti nelle carceri 302 sono in regime di detenzione amministrativa. Una misura usata prevalentemente nei casi in cui gli indizi disponibili consistono in informazioni ottenute dai servizi segreti (come lo Shin Bet), e nei casi in cui un processo pubblico potrebbe rilevare informazioni ritenute di sicurezza dalle forze israeliane. Ogni comandante dell’esercito locale può diramare un ordine di detenzione amministrativa, che può essere appellato presso la locale Corte militare e, se negato, alla Corte Suprema. Anche in questo caso, l’ordine è valido per sei mesi, ma può essere rinnovato a tempo indefinito dall’autorità . Nel territorio palestinese questa forma di detenzione extra giudiziale esisteva sin dal mandato britannico del 1945. L’ordine militare che legifera la detenzione amministrativa è il n. 1651 del 1970 che nel 1979 è stato ribadito, nonostante il Parlamento israeliano avesse stabilito già  nel 1951 che questa misura andava abolita. 
Dietro le quinte i contatti fra la direzione del Servizio carcerario israeliano e una rappresentanza di reclusi per trovare uno sbocco alla crisi si sono fatti febbrili. Ieri sera il governo palestinese ha chiesto alle Nazioni Unite e all’Europa di intervenire, ammonendo che «riterrà  Israele responsabile della vita dei prigionieri palestinesi». Nessuno vuole un Bobby Sands palestinese.


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