Londra, sì all’estradizione di Assange in Svezia
LONDRA – La primula rossa del web perde un’altra battaglia, ma non ancora la guerra. Per la terza volta consecutiva, le autorità giudiziarie britanniche respingono il ricorso di Julian Assange contro la richiesta di estradizione presentata dalla Svezia, dove il fondatore di WikiLeaks deve rispondere dell’accusa di stupro.
Dopo il giudizio di primo grado e quello di appello, ieri è stata la Corte Suprema di Londra a ritenere valida la richiesta della magistratura svedese. Ma Assange guadagna come minimo altre due settimane di libertà vigilata nel Regno Unito, grazie a un cavillo legale che potrebbe riaprire il processo, in attesa di scoprire se potrà presentare ricorso a un’istanza teoricamente ancora più alta, la Corte Internazionale dei Diritti Umani di Strasburgo.
L’udienza dura pochi minuti. Lord Philips, presidente della Corte Suprema, riassume il caso e accoglie la richiesta di estradizione, pur ammettendo che il verdetto non è unanime, bensì a maggioranza, 5 giudici contro 2. La sentenza era stata consegnata solo mezz’ora prima agli avvocati di Assange, tempo tuttavia sufficiente al capo del suo team forense, Dinah Rose, per individuare un possibile errore tecnico. Infatti i giudici hanno in parte basato la loro decisione sulla definizione di «autorità giudiziaria» data dalla Convenzione di Vienna: «Ma questo aspetto non è mai stato discusso nella precedente udienza del processo», osserva la brillante avvocatessa, come dovrebbe essere per dare alle due parti l’opportunità di fare obiezioni. Il suo intervento prende così di sorpresa il presidente della Corte, che Lord Philips le risponde chiamandola con il nome sbagliato, confondendola con il procuratore dell’accusa. È comunque costretto a concedere alla difesa due settimane di tempo per presentare ricorso su questo cavillo procedurale. Se i giudici lo accoglieranno, dovranno ripetere il processo. Può darsi che alla fine non cambierebbe niente e si arriverebbe lo stesso a un verdetto favorevole all’estradizione, ma intanto passerebbero altri mesi. E ne passerebbero ancora di più, se la Corte riconoscesse ad Assange il diritto di fare ricorso anche al tribunale dei diritti umani di Strasburgo.
Com’è noto, il fondatore di WikiLeaks è ricercato in Svezia per le accuse di violenza sessuale rivoltegli da due donne, entrambe volontarie della sua organizzazione, durante un viaggio che lui fece in Scandinavia nel 2010. Assange ha sempre negato la propria colpevolezza, sostenendo che i rapporti furono consensuali seppure «non protetti». Ma per la legge svedese anche costringere una donna a un rapporto sessuale non protetto costituisce una forma di stupro. In ogni caso le autorità di Stoccolma vogliono interrogarlo per valutare se ci sono gli estremi per un’incriminazione e un processo.
I suoi difensori e sostenitori affermano che si tratta di un complotto, il cui fine ultimo è estradarlo negli Stati Uniti, dove verrebbe incriminato per violazione di segreti di stato e spionaggio, con il rischio – secondo lui almeno – di essere condannato all’ergastolo o addirittura alla pena di morte. La magistratura britannica replica che estradarlo negli Usa dalla Svezia non sarebbe più facile che dal Regno Unito. Come che sia, Assange non ha fatto commenti alla sentenza della Corte Suprema: non era nemmeno in aula, trovandosi, secondo i suoi avvocati, «imbottigliato nel traffico», da qualche parte, a Londra. Inafferrabile primula rossa, fino all’ultimo.
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