Povera Grecia

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ATENE – I mendicanti che si vedono numerosi ad Atene sembrano più poveri di quelli di Budapest o di Sarajevo. Forse bevono meno, fumano meno, ma sono più poveri. Stanno sdraiati per terra e dormono, o fingono di dormire, magari con un bambino addosso, e con una mano morta che sporge tenendo il bicchiere di cartone per le monete, euro e frazioni, per ora. 
Dal momento che la troika – Unione Europea, Banca Centrale e Fondo Monetario – ha solennemente deciso di raddrizzare le gambe ai cani di Atene, osserverò che questi si dividono più nettamente che altrove in tre categorie: i cani con padrone, i cani di strada, e i cani anarchici, i quali vivono bensì con umani, ma insofferenti di dei e padroni – ni Dieu ni maà®tre. I cani di strada crescono di numero per le difficoltà  dei padroni a mantenerli. Sia loro che quelli padronali guardano con una certa invidia i cani anarchici, già  protagonisti di epici scontri di piazza, e in generale più preparati alla crisi. Da questo punto di vista, i tradimenti al buon nome dell’anarchia sono riscattati. Anche ad Atene attorno alla monnezza la concorrenza fra umani e cani si è fatta più serrata. Quanto ai mendicanti, il mio amico Jannis mi ha ammonito a distinguere nella carità  fra i veri impoveriti e i professionisti. Più tardi, quando ho accennato ai grossi affari dei paesi forti e delle loro banche nell’andazzo che ha portato al disastro greco, Jannis ha protestato che la colpa è solo loro, sua e degli altri greci. Dichiarazione fiera, ma poi non ti meravigliare se i tedeschi non vogliono metter mano al portafoglio. Naturalmente, l’Europa dovrebbe mettere mano al portafoglio per amor proprio, e addirittura per egoismo. Com’è noto – Ettore Livini ha fatto qui tutti i conti – la Ue ha sborsato una bella cifra: si direbbe, dai risultati, che ci sia un errore di fondo nella severa pedagogia con cui intendeva raddrizzare le gambe ai cani e forzare i poveri a cambiare stile di vita. Il 17 giugno prossimo i greci torneranno a votare, dopo che il risultato del 6 maggio ha reso impossibile la formazione di un governo. La data del 17 in Grecia è legata strettamente a quella del 23, che è il giorno di paga per stipendi e pensioni, e il voto può decidere se arriveranno o no i prestiti necessari. È la ragione per cui gli osservatori ritengono più probabile una vittoria dei partiti che hanno aderito al Memorandum, o almeno, visto il discredito colossale in cui sono caduti nel sentimento comune, una non vittoria della coalizione di sinistra radicale, Syriza, che è bruscamente passata da un’alleanza equilibristica fra almeno dodici gruppi e movimenti votati a un’opposizione perpetua alla prospettiva di governare. I penultimi sondaggi danno un testa a testa, ma gli esperti credono che alla fine prevarrà  la rassegnazione alla conservazione di Nuova Democrazia e del Pasok, un tempo rivali del bipolarismo greco, oggi ridotti a un usato insicuro, insicurissimo, e tuttavia benedetto dal ricatto internazionale. 
La questione di chi arriverà  primo il 17 giugno è essenziale, perché la legge assegna al primo partito una quota supplementare di 50 seggi, capace di decidere della maggioranza. L’ascesa di Syriza, che i sondaggi accreditano ora al 24 per cento, è effetto della crisi, della bancarotta dei vecchi partiti, e dell’abilità  tattica del suo trentasettenne leader, Alexis Tsipras, nel tenere insieme gruppi e personalità  delle più diverse provenienze e tic ideologici, e nell’aggiornare le parole d’ordine. I suoi avversari hanno ristampato il manifesto del 2010 col quale Syriza rivendicava l’uscita dall’Europa e il ritorno alla dracma. Oggi Tsipras assicura di voler restare nell’euro e rinegoziarne le condizioni. La contraddizione non è solo sua: i greci, che hanno votato così largamente per le forze anti-Memorandum (compreso il partito nazista Alba Dorata) sono quasi al 90 per cento favorevoli alla permanenza nell’euro. Il 17 giugno, la contraddizione potrà  sciogliersi sul versante “realistico”, o, se prevarranno rabbia e orgoglio, su quello opposto. E’ ormai difficile considerare realismo una linea che, a costi enormi, non ha fatto avanzare di un passo il risanamento e ha al contrario aggravato la recessione greca. Ufficialmente un quarto dei depositi bancari è stato ritirato. Probabilmente molto di più. Di qualunque cifra fossero titolari – a parte le grandi ricchezze, che sanno dove andare e ci sono andate – i greci hanno cercato di mettere in salvo una parte dei loro gruzzoli in euro all’estero, una in qualche ripostiglio domestico, e una in banca: segno che tutto oscilla, e non tutto è ancora precipitato. Il capo della polizia ha raccomandato di non prelevare i denari dalle banche per non esporsi ai ladri… 
Il programma di Syriza oscilla anche lui. Ce n’è uno, in 40 punti, che promette pressoché tutto, e Dany Cohn-Bendit ha ragione di criticarne la demagogia. Però gli elettori non votano i programmi, e nemmeno li leggono, soprattutto quando hanno 40 o cento punti. Incaricato di formare un governo, Tsipras aveva proposto cinque punti, già  più ragionevolmente. Dalla sua stanno alcuni argomenti forti. La riforma del lavoro greca (suonerà  familiare: stessi autori) decreta l’abolizione dei contratti collettivi e la riduzione del 22 per cento di tutti i salari, “rinegoziati” su scala aziendale. Nel ministero “tecnico” che va alle elezioni, un ministro vicino a Syriza, stimato giurista del lavoro, si batte per congelare la “riforma” fino a dopo le elezioni, buona carta. Al tempo stesso, le gioca contro la varietà  estrema di posizioni che Tsipras riesce per ora a tenere assieme con un certo piglio, ma presumibilmente esploderebbero all’indomani di una mancata vittoria. Ci fu perfino, lì dentro, chi proponeva di ricorrere al Venezuela di Chavez, o all’Iran di Ahmadinejad.
Intanto, sono alcune (strepitose, del resto) ingenuità  a farlo inciampare. Manolis Glezos, leggendario novantenne, diciannovenne quando strappò dall’Acropoli la bandiera tedesca nel 1941, e fu condannato a morte e incarcerato da una quantità  di regimi diversi, ha annunciato la tassazione con 100 euro al mese dei redditi annui superiori a 20 mila euro. Per rettificare, si è detto, e probabilmente era vero, che per il gran vecchio 20 mila euro sono già  una bella cifra, degna di una patrimoniale. Il programma di Syriza chiede in realtà  una tassazione del 75 per cento sui redditi oltre i 500 mila euro, che è già  più vicina – del 50 per cento – a quella proposta in campagna elettorale da Hollande sui redditi superiori al milione. 
Nel suo tour europeo, Tsipras non è stato ricevuto da Hollande, magari per ragioni di protocollo: non è un capo di governo. Però può diventarlo. Gli aggiustamenti accelerati del suo programma non hanno ancora abbracciato questioni essenziali come l’europeismo federalista (di cui un diverso ruolo della BCE non può che essere un effetto) o il rapporto fra conversione produttiva ed ecologia. Può darsi che Tsipras, assicurando di voler restare nell’euro, regoli per intero il suo tiro sulla probabilità  – in greco: eufemismo – che la Grecia vada fuori dall’euro, e dunque la responsabilità  ricada su altri e si lucri sul disastro. E’ dell’altro ieri una “precisazione” che ha moltiplicato le obiezioni, secondo cui Syriza intende rinegoziare “politicamente” e non “legalmente” il Memorandum, che però è un’obbligazione legale. Se si fosse schierata nettamente nella campagna elettorale di maggio per il ripudio dell’euro e dell’Europa, Syriza avrebbe preso ancora più voti. Ma il fallimento greco avrebbe trovato il suo principale capro espiatorio. Le autorità  europee sembrano avere uno scopo essenziale: confiscare i risultati elettorali dei paesi “periferici”. In principio, dato che siamo democratici, questo voleva dire soprattutto condizionarli. La gente deve votare comme il faut. Siccome non succede, ci si ingegna di svuotare i risultati elettorali. La Grecia, inventrice della democrazia, è il banco di prova. Basta pensare allo scherzo del referendum, deplorato a oltranza in Europa quando fu timidamente ventilato in Grecia, ventilato ora in Europa fino a sovrapporlo alle elezioni, che saranno «un referendum sulla permanenza o l’uscita dall’euro». 
Il presidente Monti ha appena detto che la Grecia ha perduto la sua sovranità  nazionale: infatti, però anche l’Italia. Non ha avuto, dice Monti, un presidente come Napolitano che evitasse di andare alle elezioni. Pensiero decisamente sibillino, no? Il presidente greco, Papoulias, le ha provate tutte per rimettere in carreggiata le elezioni, governi tecnici compresi – è curiosa la successione di competenze “tecniche” dei due governi ultimi: un banchiere e un magistrato. (A proposito di Papoulias, persona stimabile, ho sentito impiegare un termine suggestivo: Sistematikòs – una persona del sistema, che dev’essere qualcosa fra la buona società  e il generone. Da noi il sistema non si usa più, nemmeno per il capitalismo, che ha rotto l’andatura: solo per la camorra). Anche le mosse drammatiche di questi giorni, prepararsi al Grexit ecc., sono tese in parte a scongiurare la vittoria di Syriza. Gioco che può rovesciarsi nell’opposto. Un comune cittadino greco oggi può pensare che la vittoria conservatrice darebbe alla troika mano libera. L’Europa potrebbe decidere di prestare o no, e quanto e fino a quando, e che ulteriore giro di vite imporre di volta in volta. La vittoria di Syriza porrebbe almeno il problema a un’Europa cambiata da Hollande, dalla Renania-Westfalia, magari anche dall’aspirazione (verbale) italiana a compensare l’austerità  con la crescita ecc. Syriza è poco affidabile per la incombente babele delle lingue e la voluttà  delle scissioni – richiamo della foresta irresistibile delle sinistre, tanto più “radicali”. Ma quale paese europeo oggi non è attraversato dall’ascesa di forze “inaffidabili”? Italia docet. L'”inaffidabilità ” è largamente il risvolto delle decisioni tecnocratiche e burocratiche e sovranazionali, e l’usato sicuro, dove resiste, fa bene a farci i conti.


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