“Andrò negli Usa, qui rischio troppo ora Obama non si giri dall’altra parte”

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«Ma io – prosegue Chen Guancheng – continuo a credere che la Cina può cambiare solo se chi ha delle idee rimane a impegnarsi in patria. Per questo intendo tornare nel mio Paese».
Si sente ancora minacciato e da chi?
«Io sono un uomo libero, ma non posso decidere con chi incontrarmi, con chi parlare, cosa dire, cosa fare, o dove vivere. Va avanti così da lunghi anni e le conseguenze delle mie scelte ricadono su persone innocenti. Qui è tutto molto pericoloso, siamo tanto stanchi, vivi per miracolo e i miei bambini hanno bisogno di giorni normali».
Qual è adesso la sua speranza?
«Devo fidarmi di chi non ci si può fidare. Non ho scelta, ma è stata una mia decisione».
Pensa che ci sia qualcuno che ancora può fare qualcosa per lei?
«Spero che il presidente Obama da domani non si giri dall’altra parte e che mi protegga. Ma ho fiducia anche nel premier Wen Jiabao: capisce il rischio di un partito che si allontana dai propri ideali. La mia salvezza resta appesa all’affetto e al sostegno delle persone buone di tutto il mondo».
La linea cade per la terza volta e riprenderla risulta impossibile. Chen Guancheng non è però più il fantasma delle ultime due settimane, né il condannato degli ultimi sei anni. Il dissidente che ha fatto riesplodere lo scontro Cina-Usa sui diritti umani, mettendo l’amministazione Obama con le spalle al muro, sembra aver strappato a Pechino una concessione senza precedenti. «Può presentare domanda per studiare all’estero come ogni altro cittadino cinese – dice il governo – seguendo le procedure previste dalla legge». È questo il risultato del braccio di ferro diplomatico tra le due superpotenze, la formula soft strappata da Hillary Clinton ai leader comunisti. Mai la Cina avrebbe accolto una richiesta di asilo politico, condizione irreversibile, la prima dopo il 1989 della strage di Tiananmen, né l’umiliazione di vedere l’eroe della lotta contro gli aborti forzati salire su un volo di stato americano. Il caso Chen, sommato allo scandalo dell’epurazione di Bo Xilai, stava però minando la transizione del potere, potenziando la rabbia popolare contro la corruzione che contagia gli eredi di Mao. Di qui quella che oggi pare una storica apertura del partito, fortemente voluta dal riformista Wen Jiabao.
Il dissidente e la sua famiglia potrebbero così volare presto oltreoceano, ma non per sempre. Solo il tempo di beneficiare di una borsa di studio offerta dall’università  di New York e autorizzata dal governo cinese. «Pechino ha accettato – dice la portavoce del Dipartimento di Stato Victoria Nuland – di fornire al più presto a Chen documenti di viaggio. Anche il nostro visto d’ingresso arriverà  rapidamente». Un accordo Pechino-Washington fondato sull’azzardo di una reciproca fiducia. «Una soluzione brillante – dice Jerome Cohen, docente di diritto e consigliere dell’oppositore – che spoglia Chen dell’immagine del dissidente. Ma il punto è capire che il governo cinese non ha ceduto, rispetto alla linea dura usata nei casi di Liu Xiaobo, o di Ai Weiwei. Chen ha denunciato funzionari locali, non messo in discussione il sistema-partito». La conferma arriva anche da Robert Wang, braccio destro dell’ambasciatore Usa a Pechino Gary Locke. «Ha chiarito che corruzione e soprusi locali – dice – minacciano il partito. Il governo può così dimostrare che fa pulizia al proprio interno, come con Wang Lijun e Bo Xilai e che non si vendica sui più deboli».
Un intreccio di ipocrisie e di interessi, tra Cina e Usa, che sembra poter sfociare in una data memorabile: quella del primo dissidente cinese autorizzato a fare una vacanza-studio in Occidente. Non è il crollo del Muro, ma il segnale che a Pechino qualcosa si muove, sì. A colloqui in corso, vengono liberati anche l’avvocato Jiang Tianyong e l’attivista He Peirong, complici nella fuga di Chen. Un alto funzionario cinese porta perfino un mazzo di fiori al dissidente, mentre Hu Jintao e Wen Jiabao, concludendo il vertice Cina-Usa, evitano di replicare al richiamo di Hillary Clinton alla «necessaria ed essenziale salvaguardia dei diritti umani». Hu e Wen ripetono solo la richiesta di «rispetto reciproco», mentre risponde Dao Bingguo, capo della diplomazia, ammonendo la Casa Bianca dal «non sfruttare questa materia per interferire negli affari interni degli altri Stati». La Clinton torna a Washington definendo «più solide che mai» le relazioni del cosidetto “G2” e «incoraggiante» l’offerta di espatrio a Chen Guancheng. Il protagonista della grande fuga resta però nella sua inaccessibile stanza di una clinica della capitale. E forse ancora nessuno crede che quanto oggi in Cina appare vero, diventi presto anche reale.


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