“È meglio rischiare la vita che perdere il posto di lavoro” e gli operai tornano in fabbrica

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MEDOLLA – Il presente o il futuro: scegliere. Cosa fa più paura, la scossa che può arrivare adesso, fra un minuto, fra un’ora, oppure la busta paga che può non arrivare più dal mese prossimo? «Non ci sono alternative. Non siamo i tipi che si mettono in fila alla Caritas». Ventiquattr’ore dopo l’ultima scossa paurosa, Mauro Fabbri è di nuovo al suo posto di lavoro: per averne uno anche domani. L’azienda dove lavora, la Tmm marmitte di Finale, ha preso una brutta botta. Nessuna vittima, ma si può entrare solo in qualche capannone per portare via le macchine. Ed è quel che stanno facendo, febbrilmente, gli operai. Le scosse del sisma permanente in questo fondo di pianura padana continuano, perfide. «Ma il futuro fa paura come il terremoto». Bisogna continuare a produrre, da qualche parte. Il mercato non perdona. I clienti non aspettano, Mauro è un dipendente ma queste cose le sa come fosse un dirigente: «Il primo giorno arrivano le pacche sulle spalle, la solidarietà , ma già  il secondo ti chiedono quando consegni l’ordine. Il mercato ci morde le caviglie, il mercato governa le nostre vite». 
E allora si lavora lo stesso. La Fiom aveva proclamato: in fabbrica per ora non si torna. Ma in molte aziende, quelle che non hanno avuto vittime, quelle non del tutto stremate, dove vedi i piazzali di nuovo pieni di gente, gli stessi delegati Fiom danno una mano a rimediare, a sistemare, per provare a continuare. Mauro e i suoi compagni di lavoro ne hanno discusso molto, martedì, coi calcinacci per terra, e il dilemma impossibile era: «Meglio morire senza lavoro o morire lavorando?». Hanno scelto di provare a vivere lavorando: dovrebbe essere un diritto fondamentale dell’uomo.
Salvare le fabbriche, come in guerra. Anche questi capannoni accartocciati bisogna tenerseli stretti, perché un altro terremoto non se li porti via per sempre: il terremoto della grande crisi, che aleggia come un avvoltoio sulle macerie. «Da mesi girava già  la voce che vogliono portare tutto in India», Barbara Anconelli è impiegata alla Cps Color di San Felice, macchine per vernici, proprietà  finlandese, «un fondo d’investimento, e quelli badano solo ai conti. Adesso abbiamo paura che, visti i danni del terremoto, lo facciano davvero». Certo, quando i dirigenti hanno richiamato le maestranze al lavoro, dopo la botta del 20, hanno detto «se qualcuno non se la sente…». Ma se la sono sentita tutti.
Eppure si potrebbe dire di no, forse. La legge 81, articolo 44, dà  diritto al lavoratore di allontanarsi dal posto di lavoro in caso di «pericolo grave, immediato e che non può essere evitato». Non è chiaro se tuteli anche chi non vuole tornare in fabbrica in mezzo a una tempesta sismica, ma Erminio Veronesi, responsabile di zona della Fiom, è pronto a sostenere chi volesse provarci: «Sono i lavoratori il patrimonio di questa terra, non i capannoni, le fabbriche si ricostruiscono, gli esseri umani no». «Ma è giusto che tocchi a me capire se sto rischiando la vita o no? È la legge che deve salvarci», ragiona Graziella, operaia alla fonderia Scacchetti di San Felice, 200 dipendenti, fabbrica disastrata che lotta per continuare a vivere come un animale ferito, spostando le macchine un po’ qui un po’ là , nel capannone di un fornitore, in una sede trovata in affitto. 
Be’, lo decideranno le inchieste aperte sui crolli, se la legge è stata violata, e se era giusto tornare sotto quelle travi solo appoggiate sulle staffe delle colonne, spesso neppure imbullonate, costruzioni fatte come nel gioco di legnetti dei bambini. Il procuratore di Modena Vito Zincani, che ha assegnato il fascicolo sui crolli alla sua vice Lucia Musti, sembra avere opinioni chiare: «Verificheremo se la politica nazionale sulla costruzione di questi capannoni sia stata una politica suicida». Dopo le scosse del 20, i comuni hanno consentito agli ingegneri incaricati dalle singole imprese, «sotto la loro responsabilità  civile e penale», di compiere la verifica strutturale dei fabbricati. Bastava depositare la relazione e si poteva rientrare. Ma cos’è una verifica strutturale? È solo controllare che il capannone non abbia crepe? Non si dovrebbe capire se, in presenza di un periodo di scosse fuori dal normale, quelle strutture, per quanto legalmente costruite, possono reggere una botta forte? Quelle che hanno riaperto le fabbriche della Bassa erano perizie sul passato o sul futuro degli edifici? Il sindacato Usb dei vigili del fuoco accusa: leggi a parte, «non si è applicato il principio di precauzione». 
Però, chissà  se è sempre vero che le fabbriche si ricostruiscono. La struttura produttiva di questa terra di piccole imprese è come una pila di barattoli, ne togli uno e casca tutto. Non una di meno, sembra il passaparola di queste ore angosciate. A Crevalcore, nel bolognese, il piazzale della Magneti Marelli sembra un campo profughi un po’ selvaggio, famiglie con bambini, ragazzi che danno due calci a un pallone, macchine con le coperte dentro. Alcune decine di operai minacciano di dormire qui, un picchetto di sfollati, «tanto già  ci dormiamo da dieci giorni, in macchina», perché l’azienda, trecento operai, penserebbe di spostare a Bari, «temporaneamente», cioè fino al 30 agosto, una linea di produzione, causa incertezza sismica. «Sanno già  quando finirà  il terremoto?», chiedono sarcastici, hanno paura che sia l’avvio della delocalizzazione. L’azienda smentisce, «è solo un’ipotesi di riserva». A sera il picchetto è tolto, l’ansia no.
Davanti alla Haemotronics di Medolla per alcuni lo strazio continua da due giorni. Tre i morti, ma manca ancora un nome all’appello, sotto le macerie non trovano nulla. Parenti accasciati sotto una tenda afosa della protezione civile, disperati: «Non voleva tornare a lavorare, non si sentiva sicuro…», piange un uomo. Obbligati a tornare sotto i capannoni insicuri? Lo hanno denunciato anche i parenti di Mohamed e di Kumar, i due lavoratori stranieri morti nel crollo della Meta di San Felice. Sotto quei calcinacci c’era anche Claudio Bianchini, è vivo perché un compagno gli ha liberato la testa dai detriti, ora è corso via, a dimenticare, al lago di Garda: «Io parlo per me: nessuno mi ha obbligato. Mohamed, è vero, non si sentiva tranquillo, ma chi di noi lo era? C’era però anche la voglia di ricominciare, di far tornare tutto normale». In un mondo del lavoro dove così poche cose sono normali. Claudio ha 56 anni, aveva perso il lavoro quattro anni fa e dopo una serie di contratti precari era stato finalmente assunto in regola dalla Meta, e quando?, proprio dal 23 maggio: con la fabbrica danneggiata da riavviare. «Sarà  stata la gioia di aver riconquistato un lavoro stabile, ma quando mi hanno chiamato non ci ho pensato un secondo». 
Del resto, all’ospedale era nel letto di fianco al suo padrone. Ci sono le multinazionali senza volto, ma anche le aziendine costruite col sudore. Il padre di Vittorio Razzaboni riparava le giostrine dei bambini, lui ha un’azienda di macchine per le banche (quelle che contano i soldi) con clienti in tutta Europa. «Se restano». Capannone inagibile, le consegne slittano, e i clienti non hanno compassione: «Oggi, tre disdette di ordinativi, e sono clienti che non tornano più», la voce ha un filo d’angoscia. Sotto un tendone montato nel parcheggio, quattro impiegati davanti al computer: i clienti vogliono assistenza o cambiano indirizzo, ed ecco fatto il call center da campo. Anche qui, «nessuno dei ragazzi si è tirato indietro». Non lo ha fatto neppure Mauro Piazzi della Wam di Cavezzo, anche se il 20 maggio due pareti di un capannone della sua azienda meccanica gli sono crollati a terra davanti. Adesso, se l’azienda riaprirà , «chiederò garanzie, ma se mi dicono che è sicuro, ci andrò. E guardi che io tremo ancora, tremo da martedì. Ma il futuro non lo posso fare, lo posso solo subire». Se e quando le aziende riapriranno… Torniamo qui: la paura presente contro la paura futura. Terremoto e disoccupazione, dice Graziella, in fondo hanno la stesso effetto: «Buttano tutta la tua vita dentro una valigia di cartone».


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