Siria, gli occidentali cacciano gli ambasciatori

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BEIRUT – Sale la pressione internazionale contro la Siria. Con una mossa evidentemente concordata, i maggiori Paesi europei, più gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia, hanno espulso gli ambasciatori siriani dalle rispettive capitali, in risposta al massacro di Hula. Ma davanti alla dura presa di posizione della comunità  internazionale, il regime e lo stesso presidente Assad, impegnato in un confronto che ha il sapore di un redde rationem, con il mediatore Kofi Annan, non hanno mostrato cedimenti, attribuendo la responsabilità  della carneficina ai soliti non identificati “terroristi”.
C’è chi ha usato parole durissime, come il presidente francese Hollande che non esclude «un intervento armato in Siria se approvato dall’Onu», e chi, come il ministro degli Esteri Terzi, ha voluto mettere a verbale la necessità  di dare una «risposta ferma e decisa» ad un crimine odioso. Chi ha fatto ricorso alla procedura che si usa nei confronti degli Stati-paria, informando il rappresentante siriano che aveva 72 ore di tempo per fare le valige, ed è questo il caso degli stati Uniti, e chi ha soppesato la decisione fino all’ultimo.
Ma, forse perché si tratta di una mossa più d’effetto che di sostanza, non c’è voluto molto perché i più influenti Paesi occidentali assumessero una posizione concorde e coordinata nei confronti del regime di Damasco.
Si può, anzi si deve pensare che Kofi Annan, il mediatore autorevole che ha cercato con un suo piano di pace di risolvere il sanguinoso conflitto tra il regime e gli oppositori attraverso una soluzione negoziata, sia stato informato dell’iniziativa che alcuni fra i più influenti protagonisti della scena internazionale avrebbero assunto. Ieri l’ex segretario delle Nazioni Unite, volato a Damasco lunedì scorso nel chiaro tentativo di salvare la sua proposta, s’è ritrovato faccia a faccia con il presidente siriano.
Annan ha chiesto ad Assad di fare quelle «scelte coraggiose» imposte dal piano di pace (rispetto della tregua, ritiro delle armi pesanti dalle città , liberazione dei prigionieri, dialogo con l’opposizione) che finora il regime non ha fatto. Ma Assad avrebbe risposto che «il successo del piano dipende dalla fine del terrorismo». Definizione, quella di “terrorismo”, in cui, secondo la propaganda siriana, rientra anche l’opposizione.
Non sembra, dunque, che lo sdegno suscitato dai fatti di Hula, né tantomeno la cacciata degli ambasciatori, abbia modificato l’atteggiamento del regime che, sulla carta può ancora contare sulla (riluttante) neutralità  della Russia e della Cina. Né Mosca, né Pechino, pur avendo votato la dichiarazione di condanna contro la Siria per il massacro di Hula, hanno deciso di espellere i diplomatici siriani. La Russia, anche ieri, ha continuato a chiedere un’indagine indipendente.
È singolare come, nello scontro dialettico tra Mosca e la gran parte dei Paesi schieratisi contro Assad, lo stesso fatto possa essere interpretato in due maniere opposte. Ieri il portavoce dell’alto Commissariato per i diritti umani, organismo delle Nazioni Unite con sede a Ginevra, ha ricostruito il dramma di Hula facendo notare che delle 108 vittime (tra cui 49 bambini e 34 donne) soltanto una ventina e forse meno sono state uccise da colpi d’artiglieria. La stragrande maggioranza dei cadaveri recano i segni di tremende ferite da coltello o di colpi di armi da fuoco sparati a bruciapelo. Esecuzioni sommarie, dunque. Tra l’altro, l’Alto Commissariato ritiene che i morti possano essere stati più di 108.
Ora il fatto che la maggior parte delle vittime siano state trucidate freddamente è per il ministro degli Esteri russo Lavrov una dimostrazione che non è stato l’esercito a massacrare la gente, se mai è un indizio della presenza a Hula di «terroristi». Al contrario, secondo l’opposizione, sono stati gli Shabiha, le milizie fedeli al presidente Assad, a completare il lavoro iniziato dall’artiglieria.


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