Addio a Rodney King il tassista che nel 1991 infiammò Los Angeles

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È morto nell’acqua l’uomo che senza volerlo aveva incendiato Los Angeles. Aveva quarantasette anni Rodney Glen King, il tassista nero che nel 1991 fu pestato a sangue dalla polizia e con il suo volto tumefatto incendiò una città  che visse tre giorni di guerra. Los Angeles vide cinquantacinque morti, tremila feriti, almeno un miliardo di dollari in danni e l’occupazione militare del ghetto nero con panzer, autoblindo e legge marziale, prima di sedare la sommossa e di riaversi. Lo hanno trovato ieri senza vita nella piscina della villa di Hollywood dove aveva goduto i frutti del proprio martirio involontario e della propria celebrità  accidentale.
La città  che dovrebbe essere degli angeli non aveva più vissuto niente di simile dagli anni della rivolta di Watts, il ghetto, dopo l’assassinio di un altro uomo chiamato, per malvagia coincidenza, anche lui King, il reverendo Martin Luther Junior nel 1968. Ma se il martirio del profeta non violento dei diritti civili era stato quasi cercato dal reverendo che si esponeva a ogni rischio e ogni canna di fucile per testimoniare la propria sete di giustizia, l’avventura di quel giovane californiano di neppure trent’anni, fermato dalla polizia di Los Angeles per eccesso di velocità  in una notte del marzo 1991, fu tanto diversa nello svolgimento quanto identica nella radice: l’odio reciproco fra le razze. E non soltanto in bianco e nero.
Fu l’obbiettivo di una videocamera, accesa e puntata di nascosto, per la fortuna di Rodney e per la sfortuna della polizia da un passante nella notte di un tempo ancora lontanissimo dai telefonini smart, da YouTube, da Twitter o da Facebook, a scrivere la storia di uno spezzone di guerra civile americana. Dopo miglia e miglia di inseguimento ad alta velocità , fino a 150 km all’ora secondo la polizia, sulle “freeways” di Los Angeles e poi nelle strade residenziali, King era stato finalmente bloccato dall’autopattuglia degli agenti Singer, Melanie e Tim, moglie e marito, poco dopo la mezzanotte del 2 marzo ’91.
Costretto a uscire dalla macchina, affrontato da Melanie con la pistola in pugno e poi circondato da altri agenti dello Lapd, la polizia cittadina, il ragazzone di colore fu prima spinto a terra, poi raggiunto dalle freccette del “taser” per l’elettroshock e pestato fino a produrre undici microfratture al cranio, la rottura di uno zigomo e della mandibola più ematomi su tutto il corpo. Sotto l’obbiettivo di una minicamera nascosta che registrò tutto su una microcassetta, inviata poche ore dopo alle agenzie di stampa e alle stazioni tv locali.
Ma non fu neppure lo spettacolo di quel pestaggio feroce ad incendiare Los Angeles. Fu, un anno dopo, ed esattamente vent’anni or sono, nella primavera del 1992, l’assoluzione nel processo contro i tre agenti ripresi mentre si accanivano su di lui ormai a terra e scosso dall’elettroshock a innescare la polveriera sotto la crosta della pace razziale. Meno di un’ora dopo la notizia della sentenza, le strade di East L.A. esplosero, attorno a una strada chiamata, con crudele ironia storica, “Normandy”, la Normandia del D-Day.
La collera dei residenti afro si scatenò non soltanto contro l’uomo bianco, ma contro “i gialli”, quegli immigrati coreani che avevano negli anni rastrellato le proprietà  e i negozi abbandonati dai neri meno poveri sfollati verso i sobborghi. Scoppiarono battaglie da guerriglia urbana. I bottegai asiatici che avevano investito tutta la propria vita in quelle bottegucce difendevano i loro negozi a colpi di mitra e gli assalitori si scagliavano contro queste fortezze di mercanzia, disposti anche a farsi uccidere. Bruciavano quartieri, chiese, minimarket. Bottiglierie esplodevano come santabarbare e dall’aereo di linea che sorvolava ormai a bassa quota la città  in fiamme, il reverendo Jesse Jackson, inviato come “pompiere” dalla Casa Bianca, mormorava, nel sedile accanto a chi scrive, soltanto «mio Dio, mio Dio, it’s a war, questa è guerra».
E guerra fu. Dovettero entrare a East L.A. gli stessi reparti militari, con gli stessi blindati che appena un anno prima, nel febbraio del 1991, avevo visto penetrare a Kuwait City per sloggiare gli ultimi soldati di Saddam Hussein. E mentre l’incendio si allungava verso il Nord e la Costa e le ville di Beverly Hills – subito ribattezzata dai giornali “Beverly Kills”, per la voce (falsa) di caduti nella violenza – le “mansion” di Bel Air, di Malibu si svuotavano in un esodo di ricchi terrorizzati, Rodney King apparve piangente sugli schermi delle tv locali e nazionali per chiedere fra i singulti: «Ma perché non possiamo tutti convivere in pace». La pace tornò soltanto quando le forze armate ripresero il controllo del territorio, quando i pastori e le “big mama”, le madri dei quartieri riuscirono a imbrigliare e calmare i figli e i pochi bottegai afro si trovarono con le loro friggitorie e rosticcerie arrostite. Ma si placò soprattutto quando il ministero della Giustizia da Washington, allora guidato da George Bush il Vecchio, denunciò la polizia di L.A. per la violazione dei diritti civili di King, un reato federale. Il processo si chiuse con la condanna a tre anni dei poliziotti e con quasi 4 milioni di dollari in danni versati a lui dal comune di Los Angeles. La calma di sempre, quell’armistizio inquieto che regna nella zone delle città  sotto la pelle di chi vi abita, tornò e Rodney divenne una “celebrity”, un personaggio da talk show, da programmi di genere “grandi fratello”, da oratore nel circuito del “pollo di gomma”, quei discorsi pubblici in banchetti di ottimo ingaggio e pessimo cibo. Si era fatto la villa con piscina a Hollywood, a pochi passi da quelle colline di Beverly dalle quali lui, senza volerlo, aveva fatto fuggire i ricchi con la coda di paglia molto infiammabile, e una “girl friend”. La donna che lo ha trovato a faccia in giù nell’acqua, ieri, povero eroe senza gloria.


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