JEAN ECHENOZ, “COM’È BELLO INVENTARE LE VITE DI UOMINI FAMOSI”

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Nel conferire il premio per la letteratura a Lampi, l’ultimo libro di Jean Echenoz (Adelphi, traduzione di Giorgio Pinotti), la giuria del Merck Serono non si limita a coronare un romanzo ispirato alla storia di uno scienziato leggendario, rende ugualmente omaggio a un narratore ardimentoso e di grande talento che non si stanca di sperimentare forme letterarie diverse. Oggi considerato uno dei maggiori scrittori francesi, Echenoz ha conquistato il pubblico italiano con la sua suite di splendidi “esercizi di finzione narrativa” –
Ravel, Correre, Lampi – giocati sull’incerto confine tra fra biografia e invenzione romanzesca.
I tre ritratti che lei ha dedicato a Maurice Ravel, Emil Zà¡topek e Nikola Tesla sono romanzi ibridi: hanno al centro tre personaggi realmente esistiti – un musicista, uno sportivo, uno scienziato – ma lasciano spazio all’invenzione narrativa, alla fiction.
Cosa l’ha spinta a questa scelta?
«Muovermi sul crinale tra la fedeltà  biografica e la libertà  del romanziere: questo è stato il problema principale quando ho scritto
Ravel. È una difficoltà  che non avevo mai dovuto affrontare nei romanzi precedenti. Detto questo, lo spazio concesso all’invenzione – per quanto riguarda personaggi e situazioni – è in Lampi molto più ampio, il che dipende senza dubbio dal mio desiderio di ritornare alla fiction. È sempre questo “coefficiente di fiction” che mi ha indotto a cambiare il nome del protagonista. Visto che buona parte del libro era una costruzione romanzesca, mi era difficile conservare l’identità  reale del suo modello, Nikola Tesla».
Cosa l’ha attratta in questi tre personaggi?
«La dimensione mitica che hanno acquisito, direi, e soprattutto il fatto che una vita votata a un’opera è anche una vita divorata da quest’opera. In altre parole, la coesistenza di un’opera che si è realizzata al di là  di ogni speranza e di una vita infelice ».
Dal suo debutto narrativo con il Meridiano di Greenwicha Me ne vado(premio Goncourt 1999) fino a Lampi, lei ha scritto molti, bellissimi libri, sperimentando forme narrative sempre diverse come il giallo, la spy-story,
il romanzo di avventura, il racconto biografico. Cosa la spinge a cambiare pelle, a rinnovarsi così radicalmente?
«Ogni volta, mi viene voglia di scrivere qualcosa che vada contro i miei libri precedenti, se non altro per timore di ripetermi e di annoiarmi. Impresa senza dubbio illusoria, perché, per quanto le scelte formali e l’argomento siano diversi, è impossibile sfuggire a ciò che ci assilla. E poi provo sempre il desiderio di sperimentare forme nuove, dal punto di vista storico, geografico e del genere letterario».
Cosa ci può dire allora del suo prossimo libro?
«Si chiama 14 e uscirà  tra qualche mese. È un romanzo ambientato nel passato, ma stavolta senza ambiguità  biografiche. Però vorrei poi ritornare all’epoca attuale – che mi interessa più che mai –, alla fiction e a Parigi – che è sempre stata un motore importante dei miei romanzi».
Leggendo la sua trilogia si ha l’impressione che la formadi ciascun romanzo sia modellata sul protagonista: Ravel evoca una partitura musicale, Correre ha il ritmo e la velocità  di Zà¡topek… Come ne ha costruito l’architettura?
«Credo che la “forma” di cui lei parla sia al tempo stesso voluta e inconscia: solo retrospettivamente ti appare evidente che non puoi scrivere di un atleta come scrivi di un musicista. Sono il personaggio, la sua arte e quel che puoi immaginare del suo carattere a determinare e imporre una forma ».
Il primo capitolo di Lampi – dove lei racconta la nascita di Gregor (cioè del fisico e inventore Nikola Tesla) tra tuoni e fulmini – è un vero pezzo di bravura che fa pensare alla nascita dell’eroe in un romanzo
del Settecento.
«Non credo di essere stato influenzato da un’opera o da una particolare tonalità . Sono partito dall’aneddoto – forse apocrifo – della nascita di Tesla e ho cercato di renderlo nel modo più visivo e drammatico che mi riusciva. Ma è innegabile che il romanzo del Settecento mi è molto caro, in particolare per la libertà , a tutt’oggi senza
uguali, che lo anima».
Altrettanto sorprendente è l’ultimo capitolo, dove i piccioni, gli unici esseri che Gregor abbia amato, provocano la sua fine. Impossibile non pensare agli Uccelli di Hitchcock. Il cinema è per lei, come sottolineano i suoi critici, una fonte costante di ispirazione?
«Si tratta, ovviamente, di un episodio inventato di sana pianta. Certo, per scriverlo ho dovuto, come sempre mi succede, visualizzare la scena, figurarmela in movimento: sequenze, inquadrature, montaggio. Ho sempre fatto riferimento al cinema, nei primi libri ancor più di adesso. Certi film, ne sono sempre stato convinto, mi hanno insegnato molto sulla letteratura, mi hanno spinto a scrivere almeno quanto certi libri, e ovviamente non ho potuto sottrarmi alla tentazione di importare nel romanzo specifici elementi della retorica cinematografica».
Lampi ha appena ricevuto un’importante premio di carattere scientifico. Cosa l’ha spinta ad occuparsi di uno scienziato?
«Dopo essermi occupato di creazione artistica e di sport, volevo cambiare completamente registro. In realtà  all’inizio ho esitato tra uno scienziato e un politico – pensavo a Subhash Chandra Bose, un dirigente politico indiano il cui percorso mi interessava molto –, ma la scienza, a conti fatti, mi attirava di più come spazio d’avventure. Forse mi sono anche preso una piccola rivincita, visto che a scuola avevo con le scienze un pessimo rapporto. È stato in fondo un modo per appropriarmene: da giovane, purtroppo, ero del tutto refrattario alle scienze, ma il potenziale poetico del discorso scientifico mi ha sempre colpito».
Gregor è certo il più nevrotico dei sia pur nevroticissimi personaggi che figurano nei suoi romanzi: ha orrore del contatto, conta ogni cosa che gli capiti sotto gli occhi, è ossessionato dai microbi e dai multipli di tre…
«In effetti la follia del personaggio mi interessava molto: Gregor è votato a un’opera ma la costruzione di quest’opera è minata da un crescendo di ossessioni e fobie. E poi mi interessava anche la sua antipatia. Mi attirava l’idea di occuparmi di un uomo
impossibile, il cui lato respingente produce uno sfasamento, un’emozione particolare ».
Si ha l’impressione che in tutti i suoi libri, e particolarmente in Lampi, lei cerchi una sorta di complicità  con il lettore. È così?
«A dire la verità  quando scrivo non ci penso affatto. Ma mi sembra inevitabile che il lettore diventi in un certo senso un personaggio del libro e, nella misura in cui le sue reazioni e la sua memoria lo ricompongono, il suo stesso autore».


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