LA POLITICA ITALIANA SECONDO SHAKESPEARE

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E come non leggere la storia della “Trattativa”, se non come il fantasma di un giudice morto ammazzato che dopo vent’anni torna a chiedere conto ai potenti di allora — oggi vecchi, soli, spaventati — di quel suo corpo dilaniato fra le lamiere, di quella menzogna seppellita sotto la ragion di stato?
E il re dell’immaginaria Padania, povero re! Si accende la tv e si rimane atterriti dinanzi allo spettacolo di quella sua antica e spudoratissima energia divenuta grottesca scimmia di se stessa. L’incedere malsicuro, i gestacci da trivio, la voce cavernosa, la sua debolezza posta in vendita sulle bancarelle dei profittatori, fra badanti, maghe, imbroglioni, figli voraci… Non sembra quel re deformato dalla malattia e dal fallimento un personaggio da teatro eli-
sabettiano? E non si adatta all’ex fedele che sta per tradirlo quel brano del Giulio Cesare in cui Bruto riflette sull’inevitabile crimine: «Poiché Cesare mi amava, io piango per lui; poiché gli arrise la fortuna, io ne gioisco; poiché era valoroso, io lo onoro; ma poiché era ambizioso, io l’ho ucciso»?
Chi conosce Marco Follini da una vita sa che l’idea di scrivere un piccolo saggio su Shakespeare politico gli frullava in testa da tempi non sospetti, quando del potere egli era una giovane promessa e la Prima Repubblica pareva rigogliosamente invincibile. Ma il fatto che questo suo
Io voto Shakespeare (Marsilio, pagg. 111 pagine, euro 10) arrivi in libreria proprio adesso è uno di quegli accidenti che trascendono la volontà  degli autori. Anche i più restii alle suggestioni azzardate, anche quelli che come l’ex vicepresidente del Consiglio coltivano un’idea di politica come capacità  di «ammansire con calmo discorso il torrente del malcontento», per dirla con Tommaso Moro, e che hanno praticato una concezione paziente del potere quale si ritrova in un motto dell’Enrico VI:«La mia corona si chiama accontentarsi».
Ora, si vorrebbe anche sbagliare, ma forse a sua insaputa la scena pubblica italiana sembra già  densa di atmosfere shakespeariane. Si diceva dei fantasmi del Macbeth, con Borsellino che ritorna come Banquo; ma in tante cronache pare di scorgere una macchina del fango che lavora come nell’Otello; e se certi moniti dell’Enrico IV
sul populismo — «chi costruisce sui cuori del volgo, ha una casa traballante e malsicura» — si rispecchiano nell’attualità , capi e capetti della casta sono pregati di soffermarsi sul Riccardo II: «Cibo ingozzato con ingordigia strozza. La vanità , insaziato cormorano, consumato il resto, addenta le sue viscere».
Da un lato la vecchiaia grottesca e il crollo dell’imperio berlusconiano come nel Re Lear; dall’altro l’apparizione rabbiosa di buffoni e predicatori offre al passaggio storico un palcoscenico dove tragedia e commedia s’incrociano con esiti imprevedibili. Tutto questo Follini non lo scrive, scegliendo di dedicarsi con garbo e spessore alla coscienza, al cinismo, alla felicità  della moderazione. Ma il fatto stesso che leggendo il suo libro venga spontaneo riconoscere il presente nella più alta poesia di Shakespeare fa pensare a qualcosa che vibra nel cuore della storia.


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