La principessa con i fiori nei capelli che combatte il regime con la gentilezza

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OSLO – A Ung San Suu Kyi sembra incarnarlo. Giugno è il mese più felice per la Norvegia, ma ha riservato una mattina di pioggia a lei e alla sua gente entusiasta, che non se ne è data per intesa e l’ha inseguita dappertutto, al “Grand”, l’hotel storico di Christiania, alla reggia, alla sede del Nobel: del resto Rangoon tiene il primo posto per la piovosità . La comunità  birmana ha tremila persone in Norvegia, e centinaia sono arrivate da Danimarca, Svezia, Germania. Nel pomeriggio, quando la festa è passata al lungomare, il sole è venuto fuori grandiosamente al momento del suo affabile saluto a molte migliaia di persone — e le ha permesso di scherzare sul detto burmese a proposito del sole che torna dopo un lungo e allarmante buio: «Voi norvegesi potete capirmi ».
Chiamano anche lei “Lady di ferro”, per farle un complimento. Ma le persone non sono di ferro: lei è un’esile bellissima signora di 67 anni, che ha avuto 21 anni per mettere a punto il suo discorso di accettazione del Nobel per la pace. Ieri l’ha tenuto, nel Paese che l’ha aspettata per tutto questo tempo. Un po’ una favola: lei è la principessa coi fiori nei capelli, figlia dell’uomo buono che si batté per l’indipendenza del suo Paese e fu ucciso, e i cattivi le hanno tolto il posto che le spettava e l’hanno chiusa in una prigione e avrebbero buttato via la chiave se il mondo non si fosse commosso, e alla fine hanno dovuto liberarla, e tutto ricomincia da dove era stato interrotto, nel solenne municipio di Oslo. Il Nobel per la pace, l’unico riservato alla Norvegia, resta importante per le favole contemporanee, e anche Aung San Suu Kyi gli deve molto: e viceversa, perché il rischio del Nobel, che premia i viventi e spesso quando sono ancora giovani, è che i premiati non siano poi all’altezza del diploma, ciò che succede soprattutto quando vengono scelti
dei potenti, nell’illusione che usino bene del loro potere. “Zia Suu” non è venuta meno per un momento alle aspettative della sua gente e all’idea di sé che si era fissata, e ha onorato il riconoscimento del mondo. Ieri il presidente del Comitato, Thorbjoern Jagland, l’ha rivendicato: «L’intervallo di 21 anni ha provato che avevamo avuto ragione». A un prezzo per lei carissimo, perché nelle favole la principessa non invecchia, i suoi cari non muoiono e non si perdono
nel rimpianto, il suo regno torna felice. Grazie ai tanti racconti e ora al film di Besson, il versante privato della vicenda di Suu ha preso un grande spazio, e spinto a interrogarsi su quanto si possa sacrificare di sé e dei propri a una missione pubblica. (Ne ha riferito qui, sobriamente ma drammaticamente, Enrico Franceschini domenica scorsa). Le ovazioni che accompagnano questo suo ritorno europeo non possono compensarla. «Molti anni fa, anzi molte vite fa…», ha detto. Ogni volta che qualcosa avviene tardi ci si chiede se non sia troppo tardi. Agli occhi dei commentatori realisti, Suu è uscita dalla persecuzione in un modo così ordinario da minacciarne l’aura di eroismo intransigente e riportarla
alla politica prosaica. E in questi giorni la Birmania conosce una recrudescenza di tragedie irrisolte, come la violenta intolleranza reciproca di buddisti e musulmani nel Rakhine: ne trovate un’aggiornata illustrazione nel blog di Raimondo Bultrini per
Repubblica.
Le autorità  del Bangladesh, che contiene centinaia di migliaia di profughi in condizioni tremende, come quelle tailandesi, hanno respinto i Rohingya che vi cercavano riparo (con l’eccezione di un’altra minuscola favola, una bambina di un mese e mezzo, sola alla deriva in una barca).
L’antico problema delle minoranze, il 40 per cento della popolazione e un numero enorme di profughi nelle regioni periferiche, sarà  probabilmente il peculiare banco di prova della nuova condizione di
Suu. Perfino fra gli squisiti birmani norvegesi in festa con cui parlo a Oslo è difficile trovare qualcuno che non chiami “stranieri” i Rohingya. Lei dice: «Spegnere i fuochi, su cui altri soffiano». Ha adattato il proprio tono. Alla conferenza stampa col premier Stoltenberg le hanno chiesto se i capi militari della Birmania fossero irritati per il suo viaggio e le accoglienze: «Non vedo perché qualcuno debba obiettare al fatto che vado all’estero». Non lo vedeva nemmeno prima, naturalmente. Ha detto anche — infatti è discreta, ma non formale: «Se solo immaginassero come sono nervosa, sarebbero dispiaciuti per me, altro che irritati ». Ma non è vero che nella sua nuova situazione “norma-lizzata” Aung San Suu Kyi debba semplicemente smettere
il tono alto dei suoi appelli alla libertà  e alla dignità , prenderne infine commiato dopo la cerimonia postdatata del Nobel. Nella quale ha parlato anche in un toccante e spiritoso tono famigliare: come del Nobel per la letteratura che, allora sconosciuta, promise a suo figlio bambino di conquistare per partecipare a qualche isola dei famosi, e non aveva nessuna intenzione letteraria. «Vivere in isolamento mi ha dato molto tempo per rimuginare sul significato delle parole e
dei precetti cui mi ispiravo», ha detto introducendo la sua essenziale lezione di buddismo. «Pensavo ai prigionieri e ai rifugiati, ai lavoratori migranti e alle vittime di traffici di umani, alla moltitudine di sradicati della terra che sono stati tolti alle loro case, separati da famiglia e amici, costretti a vivere fra estranei non sempre benevoli». Poi ha voluto dedicare la conclusione del suo discorso alla gentilezza. Basta la gentilezza, ha detto, a toccare anche il più duro dei cuori; e ha lodato la gentilezza norvegese — non ha detto la solidarietà , o la compassione — nel dare un posto agli spostati della terra. Ha ragione, perché la Norvegia è un paese gentile.
La sua esperienza ha molto da
insegnare anche alla nostra parte della terra, che finora si aggiudicava con naturalezza l’aggettivo di “ricca”, e adesso vacilla. Il norvegese Fridtjof Nansen fu, all’indomani della Prima Guerra, l’ammirevole inventore del passaporto umanitario per moltitudini di profughi e perseguitati. Suu Kyi sa che libertà  e dignità  si misurano soprattutto con un passaporto nella propria tasca. Il suo ce l’ha di nuovo da poco. Le avrebbero concesso di partire e tornare dal suo uomo, dai suoi figli, purché non tornasse più. Questa volta è arrivata con un documento di andata e ritorno. Oggi più che mai, un essere umano è assicurato o negato da un passaporto, che si tratti di una principessa della favola o di un clandestino senza polpastrelli. E il posto finalmente occupato ieri da Suu è ancora vuoto per Liu Xiaobo. Per poco, si è augurato Jagland: «Anche i potenti hanno paura». Chi diffida della correttezza politica degli accademici norvegesi rilegga il discorso con cui motivarono la scelta che il governo cinese prese per una sfida: «Ci dispiace che il premiato non sia qui. È in carcere, isolato, in Cina. Neanche sua moglie e i suoi parenti più stretti sono potuti venire. Questo basta a dire che il premio era necessario e appropriato. Quando, nel 1935, il Comitato premiò Carl von Ossietzky, Hitler si infuriò. Ossietzky non venne a Oslo, e morì di lì a poco. Ci fu grande indignazione a Mosca quando fu premiato Andrej Sacharov, e lo stesso avvenne con Lech Walesa. E le autorità  birmane si infuriarono a loro volta quando fu premiata Aung San Suu Kyi nel 1991… Era importante per il Comitato ricordare al mondo che i diritti largamente goduti oggi vennero conquistati a caro prezzo da gente che corse grandi rischi. Jagland ha ripetuto con orgoglio quell’elenco ieri, quando Aung San Suu Kyi è arrivata all’appuntamento. Liu Xiaobo ancora no, e con lui innumerevoli altri che corrono terribili rischi e non hanno un nome. «Pechino, ci senti?», ha gridato dalla piazza il presidente di Amnesty norvegese.


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