La sfida e i rischi dell’Islam politico

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Comunque lo si guardi, il risultato delle elezioni in Egitto segna un passaggio d’epoca. Nulla sarà  più come prima in Medio Oriente.
Per la prima volta, e nel più popoloso e nevralgico Paese arabo, ad essere eletto alla massima carica dello Stato è l’esponente del più radicato movimento islamico mediorientale: i Fratelli Musulmani. Mohamed Morsi, 61 anni, è stato eletto in elezioni libere, «certificate» come tali dall’intera comunità  internazionale, Usa ed Ue in testa. Ha vinto con oltre 900mila voti in più del suo sfidante, l’ex premier dell’«ultimo Faraone» (Hosni Mubarak), Ahmad Shafiq. La vittoria di Morsi non è un ritorno al passato, né deve essere letta come il tradimento della «Primavera araba». Non è un caso che la festa sia esplosa in Piazza Tahrir, il luogo simbolo della rivolta che ha portato alla fine di uno dei regimi più longevi nel mondo arabo. Certo, Morsi non è l’espressione dello «spirito di Tahrir» ma la sua elezione non rappresenta il trionfo del fondamentalismo islamico. Il segno è altro: è quello di un Islam politico che è chiamato a fare i conti con una realtà  che non può essere piegata a una visione angusta, forzata, da Stato teocratico. Quel voto non sa di restaurazione. Alla «Primavera araba» non ha fatto seguito l’«Inverno islamico».
Il futuro dell’Egitto dipenderà  molto dalla coesistenza, tutta da realizzare, tra il neo presidente islamico e i militari. Un passaggio cruciale, uno snodo decisivo. Che chiama in causa il neo eletto presidente e sollecita le sue capacità  di mediazione. Ingegnere formatosi negli Stati Uniti, Mohamed Morsi è stato membro del Parlamento dal 2005 come deputato formalmente indipendente ed è diventato il candidato dei Fratelli musulmani dopo che al leader Khairat Saad El-Shater è stata vietata la candidatura dalla commissione elettorale. Favorevole al libero mercato, ma sostenitore della promozione di maggiori servizi sociali, Morsi ha dichiarato di voler ridurre la disoccupazione in Egitto fino al 7%, abbassare il tasso d’inflazione e i debiti del settore pubblico. Morsi ha proposto anche un sostegno agli egiziani poveri attraverso un aumento della tassazione del 2 per cento. Sul fronte estero, il leader della Fratellanza promette sostegno ai palestinesi «nella loro lotta legittima», migliori relazioni con i Paesi arabi del Golfo persico, e di voler mettere fine al rapporto di subordinazione dell’Egitto agli Stati Uniti, oltre a incoraggiare gli investimenti europei nel Paese. Sul piano religioso, Morsi ha promesso di non voler trasformare l’Egitto in una teocrazia e di voler rispettare i diritti delle altre religioni, pur riservando all’Islam una parte centrale del governo. Per vincere al ballottaggio, ha cercato di attrarre i voti dei rivoluzionari e di presentarsi come l’unico candidato che avrebbe impedito il ritorno degli uomini del regime di Mubarak: i risultati lo hanno premiato. Ma ora inizia il difficile. La prova del governo.
Una prova il cui esito dipenderà  anche dall’atteggiamento della comunità  internazionale, e in essa dell’Europa. La vittoria di Morsi sta a significare piaccia o non che l’Islam politico è una grande realtà  con cui è necessario fare i conti. L’errore da non ripetere è imboccare la strada rivelatasi in passato tragicamente fallimentare del muro contro muro. Per l’Europa esistono determinati standard che non sono rinunciabili. L’islamismo politico va sfidato su questo terreno. Una sfida che parte dal rispetto delle scelte compiute, attraverso il voto, dal popolo egiziano. Sarebbe sciagurato, e foriero di disastri, il solo pensare che un partito che guida un Paese di cento milioni di persone, fondamentale per l’equilibrio del Mediterraneo, non sia un interlocutore per l’Europa. Favorire una «istituzionalizzazione» dell’Islm politico è nell’interesse dell’Europa e quanti hanno seriamente riflettuto sul disastro provocato dall’ideologia neo con, quella dello «Scontro di Civiltà », della «democrazia portata dall’esterno», anche con la guerra (Iraq docet). La speranza è che il nuovo corso egiziano guardi verso Ankara e non a Teheran. Che faccia tesoro del «modello Erdogan»: quello di una Turchia che scommette sulla capacità  di coniugare modernità  e tradizione, declinando l’Islam politico in termini di crescita sociale, sviluppo economico, piena secolarizzazione. È la sfida che attende Mohamed Morsi.
Le sue prime parole da presidente confortano questa speranza. Sta a lui ora dimostrare, con i fatti, di non voler trasformare la prima scelta libera del popolo egiziano in un referendum fra Islam e Controrivoluzione. Così come decisivi saranno i prossimi mesi, nei quali dovrà  essere definito il testo di una nuova Costituzione che indichi con chiarezza gli stessi poteri del Presidente. L’Egitto ha scelto molto più di un nuovo capo dello Stato: ha scommesso sul consolidamento del processo democratico. Una sfida di libertà  che il neo presidente come i militari non possono tradire. Indietro non si torna.


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