La svolta di Obama sull’immigrazione. Vincono i «sognatori»

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Quando hanno attraversato la frontiera in auto, nascosti in un furgone o con un visto turistico erano bambini o adolescenti. Alcuni, magari, erano così piccoli da non ricordare nemmeno di aver vissuto in un altro Paese. Sono circa 800mila e da ieri non rischiano più l’espulsione, che in America si chiama deportazione, un termine più appropriato. Con un memorandum di tre pagine spedito ai direttori dei servizi della dogana, dell’immigrazione e di controllo delle frontiere, la Segretaria alla Sicurezza nazionale, Janet Napolitano, ha annunciato una svolta nelle politica dell’immigrazione dell’amministrazione Obama. Le persone arrivate illegalmente negli Stati Uniti prima di aver compiuto i 16 anni di età  e che non ne hanno compiuti 30, hanno vissuto nel Paese per almeno cinque anni consecutivi, vanno a scuola, si sono diplomate o hanno servito nell’ esercito e che infine hanno la fedina penale pulita, non dovranno essere espulse. Non è una legge, per quella ci vuole il Congresso, è una direttiva su come applicarla. Ma in sostanza si tratta del Dream Act, una proposta dell’ amministrazione che i repubblicani si rifiutano di approvare.
IL SOGNO AMERICANO.2
Le centinaia di migliaia di persone che vivevano una condizione da incubo possono tirare un sospiro di sollievo. Cresciuti nei quartieri ispanici delle grandi metropoli o nelle aree a maggioranza latina di Stati come il Texas, l’Arizona, la California, nel corso degli ultimi due anni hanno sentito aumentare la pressione contro di loro. Non solo alcuni governatori repubblicani hanno fatto approvare leggi al limite della costituzionalità  che aumentano le possibilità  di essere fermati per un controllo e quindi espulsi ma anche l’amministrazione Obama aveva applicato la legge con rigore. Loro, i dreamers (sognatori) come si fanno chiamare quanti si sono mobilitati per il Dream Act vestono, pensano, studiano e trasudano cultura statunitense. Magari latina o asiatica, ma made in Usa. Per questi ragazzi l’espulsione non sarebbe stata solo il fallimento di un percorso migratorio, ma un’emigrazione forzata in Paesi Messico, Salvador, Honduras e magari qualche Paese asiatico che conoscono appena. E per questo nei mesi scorsi avevano manifestato nelle piazze, autodenunciandosi.
STORIA DI CESAR
«Sono qui, non ci sono nato, ma ho preso un Phd e ho fondato una organizzazione pubblica per uscire allo scoperto. Sono qui da sempre, credi che avessi idea di non essere in regola?». Così ci raccontava Cesar Vargas qualche settimana fa durante un seminario di discussione sulla riforma dell’immigrazione. Cesar assieme ad altri ha fondato un gruppo di pressione, il Drm capitol group, in favore di misure come queste e al telefono ci dice di essere felice: «Siamo scesi in strada, abbiamo organizzato raccolte di firme, siamo andati a Washington per questo. Ora terremo gli occhi aperti perché le nuove regole vengano applicate, ma oggi abbiamo un’occasione per festeggiare e il presidente ci ha dato una ragione per mobiliarci in suo favore». La mossa dell’amministrazione, che ha spiegato in prima persona la nuova politica ieri pomeriggio, è una scommessa politica. I latinos (ma anche gli asiatici) sono un gruppo cruciale per le elezioni di novembre e l’inazione sulla riforma dell’immigrazione, accompagnata dall’eccesso di zelo sulle espulsioni rendeva questa parte dell’elettorato quantomeno poco entusiasta. Con questa scelta Obama può finalmente sostenere di aver fatto qualcosa. Non si tratta di una riforma epocale e neppure di una strada verso la cittadinanza. Ma è un passo nella direzione giusta e non dovrebbe far male con gli indipendenti: in fondo si tratta di giovani, studenti, il possibile futuro d’America. Romney dal canto suo balbetta o sostiene la auto-deportazione: sa che per lui l’immigrazione è un terreno scivoloso sia spostandosi a destra che al centro. Tanto più che alcuni membri del partito repubblicano hanno già  attaccato duramente la nuova politica con la scusa che aggira il Congresso. A confermarci che la scelta di Obama sia quella giusta è ancora Cesar Vargas: «Mi ha appena chiamato mio cognato, è un cittadino americano, tende a essere conservatore, non vota e se lo facesse voterebbe repubblicano. Stavolta vado a votare e voto per il presidente, mi ha detto».


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