Le banche in cerca di «merci naturali»
Nel primo pomeriggio di ieri, al lussuoso Windsor Barra Hotel nei pressi della sede del vertice delle Nazioni Unite, alcune tra le più importanti banche e del pianeta, grandi investitori privati, settori istituzionali delle Nazioni Unite e alcune ong come il Wwf hanno presentato la loro visione. Per l’Italia hanno firmato Unicredit e Monte dei Paschi. Surreale: il tutto avviene come se negli ultimi anni non fosse stata la finanza globale a portarci sull’orlo del collasso dell’economia mondiale. La stessa finanza globale che da decenni sta foraggiando l’operato di multinazionali e governi che hanno depredato impunemente le risorse del pianeta, spesso lasciando le comunità locali nella miseria. I firmatari della dichiarazione «chiedono al settore pubblico e a quello privato di lavorare insieme per creare le condizioni necessarie per mantenere e rafforzare il Capitale Naturale come un asset economico, ecologico e sociale critico». Per i banchieri, “né i servizi, né lo stock del Capitale Naturale che li fornisce, sono adeguatamente valorizzati in paragone al capitale sociale e finanziario». Per questo la natura sarebbe sfruttata oltre i limiti consentiti e quindi «il settore privato, i governi, tutti noi, dobbiamo sempre più capire e conteggiare il nostro uso del Capitale Naturale». In pratica le banche si impegnano a contabilizzare, anche se in maniera poco chiara e trasparente, il loro uso delle risorse naturali – chi lo sa se anche quelle distrutte da progetti e imprese finanziate da loro – e soprattutto chiedono agli esecutivi mondiali leggi per «creare» i nuovi beni naturali e renderli commerciabili globalmente. È infatti chiaro che la finanza non si ferma al valore d’uso delle merci, ma misura anche il loro valore di scambio, tanto per scomodare Marx. Banche e investitori scelgono il termine «capitale» senza timori, anche se in maniera tecnica. «Unicredit riconosce che solo preservando i servizi degli ecosistemi è possibile mantenere lo sviluppo economico in un modo sostenibile», sottolinea l’amministratore delegato dell’istituto di credito Federico Ghizzoni. Ma il capitale è ben altro che un esercizio ragionieristico, bensì il complesso di relazioni sociali, politiche ed economiche che permettono a un gruppo di persone di accumulare ricchezza a spese di un altro. Forse nei promotori della dichiarazione questo è un dato assodato, anche dopo la prova di fuoco vinta con l’ultima crisi – si pensi ai mega salvataggi delle banche – e perciò ha senso uscire allo scoperto. Il messaggio delle banche per il vertice ufficiale è chiaro: per uscire dalla crisi di accumulazione che vive da tempo l’economia globale è necessario creare una nuova classe di asset a partire dai servizi degli ecosistemi, poco conta se tutto ciò va fatto a discapito di gran parte delle persone e dell’ambiente stesso, ma di sicuro a vantaggio di fondi hedge , di privat e equity e delle banche di investimento alla ricerca di profitti sempre più elevati. Per internalizzarere i «costi ambientali» alla fine si sceglie una via ben poco democratica, poiché solo le élite finanziarie oggi al potere potranno scegliere come e a cosa «dare valore» in natura. L’esperienza della prima «merce naturale» creata, ossia i permessi di emissioni, con annessi i relativi mercati finanziari globali, la dice lunga: le emissioni sono aumentate, così come i profitti di pochi.
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