Le grandi manovre del “Patto di Shanghai”

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L’idea di creare relazioni più strette tra questi giganti dell’Asia era nata per affrontare le crescenti minacce terroristiche di matrice islamica che nei primi anni del secolo si concretizzarono in vari attentati in Russia, ad opera della guerriglia cecena, e in rivolte popolari nell’estremo occidente della Cina, abitato da minoranze etniche uigure. Subito però si colse la valenza strategica dell’alleanza che, nel corso del tempo, ha portato ad accordi in campo energetico, ad esercitazioni militari congiunte e infine al perseguimento di un’agenda politica comune, ovviamente in chiave anti Nato. Cina e Russia non si sono mai amate e dispute territoriali rischiano di incrinare rapporti che si stanno via via consolidando. Tuttavia le relazioni sono state rinvigorite da una serie di incontri bilaterali l’ultimo dei quali avvenuto a Mosca all’inizio di maggio tra il vicepremier russo Igor Shuvalov e quello cinese, Li Keqiang: in quell’occasione sono stati siglati patti commerciali per un valore di 15 miliardi di dollari ed è stata decisa la creazione di un fondo di investimento comune che potrebbe gestire sino a 4 miliardi di dollari. Non è un caso poi che il “nuovo” presidente russo Putin, dopo aver disertato il recente G8 di Camp David in polemica contro lo scudo antimissile americano, preferisca rinsaldare l’amicizia con la Germania e influenzare un’Unione Europea sempre più debole e disgregata, per poi volare in Cina ben sapendo che è a Est che si stanno spostando gli equilibri del mondo.

Il vertice di Pechino, stando alle anticipazioni e alle previste presenze, segnerà  probabilmente una nuova fase dell’organizzazione, facendola diventare per davvero un contraltare di qualsiasi pretesa di controllo americano dell’Asia centrale. A vario titolo giungeranno nella capitale cinese i Presidenti di Turchia, Iran, Pakistan, India, Afghanistan: sono paesi a prima vista molto diversi tra di loro per priorità  e per problemi, collocandosi sovente sui due lati opposti dello scacchiere internazionale. Tutto però sta cambiando vorticosamente nella direzione dello sgretolarsi dell’influenza degli Stati Uniti nella regione. Il sostanziale fallimento della guerra in Afghanistan (le truppe occidentali si ritireranno l’anno prossimo dopo aver dichiarato “missione compiuta”), la dispendiosa e sanguinosa campagna contro il terrorismo che ha portato a buoni successi ma anche a crescenti attriti con il Pakistan, e infine l’inedito atteggiamento della Turchia che, pur rimanendo nell’Alleanza Atlantica, gioca da sola la sua partita, determinano una repentina modifica di equilibri consolidati.

Anche l’India, storicamente nemica della Cina per questioni di confine legate alle sorgenti dei grandi fiumi che scendono dall’Himalaya, si sta riposizionando in conseguenza del cambiamento degli equilibri politici dell’area: per ora parteciperà  insieme agli altri paesi della SCO ad esercitazioni militari della struttura anti terrorismo dell’organizzazione con sede a Tashkent.

È venuto il tempo di riaprire la Via della seta facendo però transitare petrolio e materie prime? Non si capisce ancora se la Cina giungerà  di nuovo ad avere la forza e l’autorità  per essere il garante del collegamento tra Mediterraneo e Pacifico, ma è chiaro che la sfida è stata lanciata. La nuova Via della seta passa però, oggi come ieri, attraverso l’Iran e quello che oggi indichiamo comunemente come medio oriente. Pure il presidente iraniano Ahmadinejad parteciperà  al vertice mandando un chiaro segnale all’occidente: spalleggiato da due giganti come Russia e Cina l’oscuro e inquietante programma nucleare iraniano potrà  andare avanti tranquillamente.

Stesso discorso, con tutta probabilità , sarà  dedicato alla Siria. L’appoggio formale al decrepito e alla fine controproducente piano Annan sancirà  il sostanziale appoggio dell’Organizzazione di Shanghai al regime di Assad, che resta un alleato prezioso nella regione in chiave di una egemonia sull’Asia. A lungo andare però questo sostegno denota una incapacità  delle nazioni emergenti e in particolare della nuova potenza cinese ad assumere responsabilità  positive in grado di calmierare situazioni incandescenti, in nome dei propri interessi. Eppure proprio un’azione di calmiere, anche per quanto riguarda la crisi economico finanziaria in atto, renderebbe l’incontro di Pechino un luogo dove si cerca per davvero di migliorare il quadro internazionale senza limitarsi ad essere il contraltare di Washington.


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