Lo spettro della Grande Depressione dietro l’ “interventismo” americano

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NEW YORK – Fuori programma, decide di tenere una conferenza stampa alla Casa Bianca. Cambia registro, rispetto ai giorni scorsi: sempre allarmato, determinato, ma ora più amichevole nei toni che rivolge ai partner europei. Lancia un appello perché blocchino sul nascere un crac bancario spagnolo che si amplificherebbe fino a risucchiare il resto del mondo in una nuova pesante recessione. Dà  atto che gli europei ci stanno provando, che le soluzioni ai loro problemi sono difficili, «però le soluzioni esistono». Apprezza le riforme avviate in Italia e Spagna. Esorta gli elettori greci a non rendere inevitabile un’uscita dall’euro «che gli creerebbe difficoltà  ancora maggiori». Promette aiuto dagli Stati Uniti. E’ un Obama virtualmente nei panni di Franklin Roosevelt, si fa carico di indicare una via di uscita globale, nell’interesse di tutte le nazioni, di fronte a un’emergenza comune. Con garbo ma anche con pignola competenza, entra in pieno nel dibattito interno all’eurozona, dà  consigli e incoraggiamenti, traccia una “road-map”, un percorso delle riforme che il Vecchio continente deve adottare.
E’ un venerdì davvero eccezionale,
in cui Obama parla alla sua nazione e al mondo intero di una euro-crisi che riguarda proprio tutti, da cui nessuno può illudersi di uscire indenne. Non a caso il presidente degli Stati Uniti sceglie di intervenire nelle stesse ore in cui si accavallano freneticamente le voci secondo cui la Spagna si è decisa a fare il grande passo: la richiesta ufficiale di un salvataggio esterno per ricapitalizzare le sue banche sull’orlo del crac. Un salvataggio che significa l’umiliante commissariamento del governo di Madrid da parte della troika composta da Commissione Ue, Bce, Fmi. Non c’è un attimo da perdere, Obama vuole che si senta tutto il peso dell’America in questo frangente: «I dirigenti europei si rendono conto della gravità  e sanno che è urgente agire». Fare subito argine contro un panico bancario, un assalto agli sportelli: è la lezione che si ricava da quel che gli Stati Uniti fecero nel 2008 e 2009. Ma questo è solo il primo passo. «Poi va costruito un quadro e una visione di lungo termine — dice Obama — per una eurozona
più solida, capace di collaborare di più nelle politiche di bilancio e bancarie». Ecco il presidente degli Stati Uniti che si propone come “mediatore” autorevole tra le varie proposte di Angela Merkel, Mario Draghi, Mario Monti, Franà§ois Hollande. Il suo tono costruttivo e benevolo sta a dire: tra voi siete meno distanti di quel che credete. Obama implicitamente dà  atto alla Merkel di aver compiuto un passo significativo con la proposta dell’unione politica. Ci aggiunge quel traguardo di una vigilanza bancaria europea (e assicurazione federale sui depositi dei risparmiatori) che sta caro a
Draghi. La Casa Bianca prova a stringere i tempi di una sintesi tra le migliori idee in circolazione a Berlino, Francoforte, Bruxelles, Parigi e Roma. Non rinuncia però ad ammonire ancora la Germania: «Con delle economie deboli non si può solo tagliare, o si finisce in una spirale che trascina sempre più in basso, e impedisce di ripagare lo stesso debito pubblico ». Ecco dove è chiaro il riferimento storico: agli errori tragici degli anni Trenta, quando le politiche keynesiane di spesa pubblica anti-depressione vennero interrotte prematuramente. Troppo presto si tornò a praticare l’ortodossia rigorista
dei conti in ordine. Quando ancora il malato era tutt’altro che convalescente, gli si tolse l’ossigeno. Le ricadute furono tremende, in America l’anno orribile fu il 1937. In tutto l’Occidente gli errori nelle politiche economiche di quel decennio prolungarono la Grande Depressione fino alla seconda guerra mondiale, quando la deflagrazione del conflitto costrinse tutti a “tornare keynesiani” (producendo bombardieri e tank). Obama è convinto che siamo in un frangente quasi altrettanto pericoloso. Non ha in mente soltanto la sua elezione del 6 novembre, quando dice che «meno domanda di consumo a Parigi o Madrid significa una caduta di produzione a Pittsburgh e Milwaukee». Quel che vuol dire, è che sono troppi e troppo convergenti i segnali di un contagio letale dell’euro-crisi: l’effetto domino gela il Brasile e l’India, la Cina deve correre ai ripari contro una frenata della domanda. La lucida percezione che ha Obama di così tanti segnali concordanti su un possibile “ritorno al 2008”, lo spinge fino a interferire nel voto greco, con il chiaro appello agli elettori a non portare al governo di Atene dei leader anti-euro.
Anche l’America deve fare la sua parte. Il presidente incalza il suo Congresso perché gli approvi finalmente 450 miliardi di misure per il lavoro e per la crescita. Anche lui è in una
stretta politica, con la destra che controlla la Camera e gli boccia quasi tutto. Una destra così oltranzista e così radicalizzata rispetto alla tradizione repubblicana che, come spiega il Nobel Paul Krugman, «Ronald Reagan potè usare la leva della spesa keynesiana più di quanto non riesca a farlo Obama ». E tuttavia in America l’occupazione cresce. Troppo poco, ma ancora cresce. Perciò questo presidente ha un altro moto di comprensione verso i nostri governi: «Noi nel 2009-2010 abbiamo preso azioni decise (finché i democratici avevano la maggioranza nei due rami del Congresso, ndr). Immaginarsi cosa vuol dire coordinare 17 governi dell’eurozona, 17 Congressi». E questa non è una battuta. E’ un’indicazione alla Merkel, perché tragga le conseguenze più coerenti e più complete dalla sua proposta di una unione politica. Obama vede con chiarezza che da questa crisi si esce solo affrontando i nodi istituzionali di una democrazia federale europea.


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